Col Vesuvio sotto i piedi

La foto la riprende in fondo a una trincea di scavo, mentre mostra con orgoglio alcune anfore appena riemerse dal lapillo; anfore con tutta una storia da raccontare e forse ancora un lontano aroma di vino. Non era certo il ritrovamento più importante di quella villa rustica a Scafati, nel suburbio orientale di Pompei, ma ne ero piuttosto soddisfatta, commenta la dottoressa Marisa de’ Spagnolis, che proprio questa foto ha scelto per la copertina di Dieci anni a Pompei e nella Valle del Sarno (1): un libro che, come indica il sottotitolo Esperienze ed emozioni di un’archeologa, vuol essere innanzi tutto l’appassionante rivisitazione di un’avventura che ha arricchito la sua vita, non solo professionale. La soddisfazione dell’autrice era motivata dal fatto che la Valle del Sarno affidata alla sua tutela era ritenuta (a torto) poco promettente dal lato archeologico; ma non è questa l’unica spiegazione: ogni ritrovamento in quel territorio, infatti, costituiva un doppio successo a motivo delle difficoltà incontrate, come avremo modo di approfondire. 1987-1997: l’avventura archeologica della de’ Spagnolis – oggi in servizio presso la Soprintendenza per i Beni archeologici del Lazio – coincide pressappoco col periodo in cui un altro archeologo che è anche suo marito, il prof. Baldassarre Conticello, è stato responsabile della Soprintendenza di Pompei. Cordiale e comunicativa, è al tempo stesso determinata e ferrea: doti che le sono state necessarie per un territorio, quello scafatese, che per troppi anni – scrive nel suo libro – era stato terra di nessuno e sul quale si erano commessi i peggiori crimini edilizi a spese dell’archeologia . L’amore per l’archeologia e il legame particolare con quella vesuviana risalgono alla sua prima giovinezza… In effetti l’interesse per il passato è qualcosa che mi porto dentro da sempre: un fatto quasi genetico. A darmene coscienza ha contribuito, senza dubbio, la mia prima visita a Pompei, la mitica città campana sepolta dal Vesuvio. Era il 1964 e avevo quattordici anni…. Certo, allora non poteva immaginare che un giorno avrebbe avuto il privilegio di stabilirsi con la sua famiglia al margine di questa città unica al mondo… Già, abitavamo in un edificio ottocentesco già alloggio di famosi archeologi del passato come Amedeo Maiuri e Matteo Della Corte. Era situato all’interno dell’area demaniale, in un complesso di case occupate da personale degli scavi. Una specie di microcosmo – io lo chiamo il popolo del viale, con figure pittoresche come la signorina Emma – dove era sopravvissuto un tipo di vita borbonico che oggi non esiste più, in quanto quei fabbricati sono ora adibiti ad altri usi. Col mio libro ho voluto essere testimone anche della fine di quel mondo. Nocera e la Valle del Sarno, scrive, sono entrate ormai a far parte della sua storia… Io continuo ad essere legata col cuore a quel territorio perché mi ha dato dei risultati incredibili e perché vi si fa un’archeologia diversa da quella di altri siti: più sacrificata, più pericolosa anche (dalla tranquilla Soprintendenza romana mi ero trovata come un combattente in prima linea). E poi, io che sono originaria di Itri nel Lazio, mi considero ormai campana di adozione da quando mi è stata conferita la cittadinanza onoraria di Nocera Superiore, dove ho conseguito importanti ritrovamenti. Insieme alle soddisfazioni, ha incontrato anche non pochi ostacoli lungo il percorso: penso ai proprietari terrieri per i quali ogni scoperta rappresentava un problema… Proprio così. L’Agro nocerinosarnese è una terra non abituata a convivere con l’archeologia, una terra a cui non serve il turismo: le basta l’ oro rosso del pomodoro San Marzano. Di qui l’opposizione di quanti non riuscivano a capire l’importanza dell’archeologia. Era in momenti come quelli che veniva messa in crisi la mia fiducia in ciò che facevo e in cui credevo. A che serve esplorare il passato – mi domandavo -, cercare le testimonianze di uomini vissuti tanti secoli or sono, quando la società attuale sembra non voler guardare indietro, decisa a proiettarsi, senza memoria, solo nel futuro? Oggi però la situazione è un po’ diversa, è cambiata in meglio. Quindi spero di aver aggiunto anch’io un granellino nella costruzione di una società più attenta a certi valori. A proposito dei rischi corsi per la sua opera di disturbo degli interessi della camorra, lei afferma: Il Vesuvio non era di fronte a noi, era sotto di noi. Ecco, questo è un altro capitolo, appena accennato, che un giorno potrebbe diventare un libro a sé. Una delle cose più terribili che ci siano capitate è stata, ad Ercolano, la sottrazione di gioielli e bronzi fatta su ordinazione per colpire la dirigenza di Pompei: in questo modo speravano di togliersi dai piedi direttori o soprintendenti sgraditi. Per fortuna i reperti, trafugati da ignoti armati che avevano legato il personale di custodia, sono stati poi recuperati, e siccome si è trattato di rapina e non di furto (nel qual caso ne sarebbe andato di mezzo il soprintendente), la camorra non ha ottenuto il risultato sperato. Non potendo dire tante cose, ho cercato di farmi capire con l’immagine minacciosa di un Vesuvio sotto i piedi. Leggo che la sua fama a Salerno le è stata spiegata così: Ha avuto il coraggio di fermare i lavori a quella ditta. Ma sa che lei ha rischiato di finire in un pilastro?. Davvero non ha mai avuto paura? No, mai, anche se le sembrerà strano. Credo di essere stata un po’ scaltra nel non far capire che ero io a condurre il gioco archeologico nella Valle del Sarno. Piuttosto davo l’impressione di essere stata mandata a fare certi controlli da qualcun altro sopra di me, non meglio identificato . Una donna quale apporto dà, secondo lei, all’archeologia? Lo stesso di un uomo, direi, quando c’è la passione. E il nostro non è un lavoro, è una passione. Tant’è che a volte sacrifichiamo anche le nostre famiglie per dare il nostro apporto in questo settore. Veniamo all’aspetto umano dello scavo archeologico. Lei lo mette in luce in vari punti del suo libro… Sì, come quando racconto il rinvenimento a Nocera, nel monumento funerario dei Lutazi, di due iscrizioni in versi metrici: la prima, in latino, era il lamento funebre di un padre per la perdita del suo unico figlio – Quinto Lutazio Varo, di soli diciassette anni – annegato in un fiume sotto i suoi occhi. L’amore per il figlio accende nel padre inconsolabile la speranza di una vita nell’aldilà, se così si rivolge a lui: Come un dio sei, un dio immortale, o Quinto Lutazio, e possa godere di un’anima immortale. Nella seconda iscrizione, in greco, il giovane parla come se fosse ancora vivo, invitando il viandante a compiangere il suo triste destino. A distanza di venti secoli, questa tragedia familiare riesce ancora a commuovere – così è stato per noi: – essa tocca sentimenti comuni agli uomini di ogni epoca, come l’amore e il dolore. A cosa attribuisce il successo (contrastato) del suo decennio campano? Ho solo fatto il mio dovere. Non ho considerato i miei dipendenti come tali, ma come miei collaboratori nella salvaguardia di un territorio. Li ho trattati come uomini, cercando di valorizzarli nel ruolo che sentivo più adatto alle loro capacità. Io poi ho fiducia nell’uomo, cerco sempre di vedere il bene piuttosto che il male; però bisogna riconoscere che sono stata anche fortunata: ho avuto dei collaboratori che hanno rischiato la vita per salvare l’archeologia nella Valle del Sarno, hanno fatto cose quasi incredibili per dei dipendenti dello Stato. Andando via era convinta di aver fatto un taglio con quell’esperienza. Invece certi rapporti non si sono mai interrotti, ed è bellissimo questo continuo ritorno di attestati di stima e di amicizia. Tuttavia le mancherà quel territorio… Certo, la terra vesuviana è qualcosa di unico rispetto ad altri siti archeologici, per le testimonianze impressionanti che sa offrire: dagli scheletri di un cavallo e di un cane bloccati nella loro stalla perché legati alla catena, al mestolo abbandonato in un dolio ancora pieno di farina nella concitazione della fuga, addirittura all’odore di cipresso scaturito da un reperto ligneo perfettamente conservato, come vivo… È un vero peccato che i non addetti non possano assistere ad uno scavo in diretta e siano tenuti lontani dai cantieri. Certo, ci sono norme di sicurezza da rispettare, però io creerei le condizioni perché tutti possano esservi ammessi, specialmente nell’area vesuviana: sono certa che ne sarebbe accresciuto l’interesse per l’archeologia, soprattutto nei giovani. Non tutti poi lavoreranno necessariamente in questo campo; gli altri però, contagiati dall’amore per le testimonianze del passato, darebbero il loro contributo ad una società più sensibile ai beni rappresentati dalle sue radici.

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