Cittadinanza all’economia

Nel mondo delle virtù?  Per il primo appuntamento con il libro "Le nuove virtù del mercato", Luigino Bruni ci spiega come ciò sia attuabile. Sei semplici regole per una delle attività considerate storicamente meno etiche
Le nuove virtù del mercato

Mai visto troppo bene, mai tanto da essere meritoria di legittimazione etica. L'economia è così: il terreno delle azioni spietate e a-morali, strumentali e non interne come richiederebbero le azioni virtuose. «Ma non occorre nè fare ricorso alla versione aristotelica né a Smith per considerarle tali» secondo l'economista Luigino Bruni ne "Le nuove virtù del mercato" al primo appuntamento della rubrica con il nuovo libro del mese.


 «Nel suo influente libro After Virtue (1981), il filosofo Alistair McIntyre, forse il più importante filosofo neoaristotelico e comunitarista contemporaneo, ci ha mostrato che la virtù rimanda oggi al concetto di pratica (la cui origine possiamo rintracciare nel pensiero di Ludwig Wittgenstein), e cioè quell’insieme di norme e di comportamenti ricevuti da una tradizione e socialmente determinati all’interno di un ambito e di una data comunità, un concetto che spiega anche lo stretto rapporto tra etica delle virtù e filosofia comunitarista: «Con “pratica” io intendo ogni coerente e complessa forma di attività umana cooperativa socialmente stabilita, attraverso la quale vengono conseguiti i beni interni a quella forma di attività, allo scopo di cercare di raggiungere quei standard di eccellenza che sono appropriate, e parzialmente definitive, a quella forma di attività. […] Quindi, il range di pratiche è ampio: arti, scienze, giochi, politica nel senso aristotelico, creare e mantenere la vita familiare, tutte ricadono nel concetto» (McIntyre 1981, p. 187, trad. mia). «Tutte ricadono nel concetto» di pratica, tranne… le attività economiche (che non vengono mai citate): e perché? Tesi bizzarra, in effetti, questa di McIntyre, perché non si capisce la ragione per cui il mercato o l’ambito economico (tra cui l’attività produttiva e d’impresa) non dovrebbero avere le loro tipiche virtù in rapporto alle loro pratiche.


«Esiste, infatti, una sorta di ipotesi implicita alla base di molta parte della filosofia dell’etica delle virtù, che consiste nel considerare l’attività economica normale (scambio, produzione, risparmio) come in sé non virtuosa, poiché il mercato sarebbe sempre attività strumentale e non interna o intrinseca. In queste pagine sostengo una tesi diversa, che considera invece la possibilità, teorica e pratica, di individuare e praticare quelle che chiameremo le virtù del mercato. Una ragione, forse quella principale, che spiega la diffidenza da parte dei filosofi delle virtù nei confronti dell’ambito economico, e quindi l’esclusione delle pratiche economiche dal novero di quelle virtuose, è l’identificazione del possibile telos dell’economia nella volontà di arricchimento personale: se scopo dell’economia e dell’impresa è massimizzare la ricchezza e il profitto individuale, non è facile vedere in questo atteggiamento, anche qualora fosse eccellente, una virtù, poiché da una parte si fa fatica a vedere un valore non strumentale in una tale pratica, e, soprattutto, perché non si associa al Bene la ricerca individuale della ricchezza. Sarà proprio questo telos del mercato che metteremo radicalmente in discussione, e da qui proporremo la possibilità di immaginare virtù, antiche e nuove, del mercato.


«Per parlare di virtù del mercato e del loro ruolo non è poi necessario abbracciare la versione aristotelica né quella più “soft” di Hume e Smith (e persino di Hobbes). È infatti sufficiente una versione più generale del concetto di virtù, una sorta di comun denominatore tra le diverse teorie che hanno attribuito un’importanza alle virtù nella vita civile (in particolare la tradizione aristotelica, fino a McIntyre, e quella liberale inglese, da Hobbes a John S. Mill). La virtù economica, da questa prospettiva, è la coltivazione di buone abitudini relative a uno specifico dominio, il mercato (inteso in senso ampio, fino a includere anche l’impresa), descritto in un modo compatibile anche con la concettualizzazione che di questa ne dà la teoria economica classica e neoclassica, includendo anche il discorso di Smith su come otteniamo, civilmente, il pranzo dai nostri concittadini (Libro 1, cap. 1, Ricchezza delle nazioni).


«Possiamo allora individuare alcune caratteristiche di questa visione ampia di virtù, che sottostarà al discorso sulle virtù del mercato che stiamo iniziando:

1) La virtù è una disposizione (o un tratto) del carattere di un individuo, relativa a uno specifico dominio;

2) è qualcosa di tendenzialmente stabile nel tempo, che quindi non coincide con le scelte che invece cambiano in base ai vincoli e alle preferenze;

3) è suscettibile di essere coltivata dall’individuo e dagli altri con cui interagisce, e quindi l’individuo è responsabile per essa;

4) una volta coltivata, la virtù aiuta la persona a raggiungere l’eccellenza in un dato dominio. Questo “qualcosa” da raggiungere può essere, nella tradizione aristotelica, il telos, ma non è necessario abbracciare una data metafisica per accettare questa definizione di virtù, poiché questo “qualcosa” può anche essere uno stato mentale, come la felicità per alcuni autori utilitaristi;

5) ciò che viene ottenuto attraverso la virtù (carattere, comportamento, abitudine…) deve ottenere l’approvazione e la simpatia degli altri, all’interno di quel dato dominio;

6) infine, è la disposizione l’oggetto dell’approvazione e della simpatia degli altri, non primariamente i risultati delle azioni, anche se tra i due livelli esiste evidentemente un rapporto circolare.

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