Certificato di residenza fiscale

Buon giorno, avrei bisogno del Certificato di residenza fiscale. Questa è una copia di quello che mi avete rilasciato l’anno scorso. Porgo la fotocopia all’impiegata. Lei la osserva per qualche secondo, poi me la restituisce. Noi non rilasciamo questo tipo di documenti. Osservo il foglio che ho in mano. C’è scritto Certificato di residenza fiscale. Ufficio delle imposte. Non ho confuso né il documento né l’ufficio. Riporgo il foglio all’impiegata. Qui c’è scritto Ufficio delle imposte. L’anno scorso, in uno di questi sportelli, non ricordo quale, mi avete rilasciato questo documento. Quello è solo il nostro timbro, noi non rilasciamo questo tipo di documenti. Lo ha scaricato lei da Internet. Ho un attimo di disappunto, poi mi riprendo: Non saprei neanche dove cercare in Internet un documento simile, le assicuro che lo avete rilasciato voi. La signora alza la cornetta del telefono, lo sguardo impassibile, scambia alcune battute lapidarie con un collega, riattacca: Stanza 224, primo piano. Mi restituisce il foglio. Grazie, arrivederci. Salgo al primo piano. Una grande porta a vetri mi divide dagli uffici numerati. Suono il campanello. Aspetto. Non arriva nessuno. Suono il campanello. Dalla porta dell’ufficio di rimpetto esce una signora, apre la porta a vetri, mi guarda. Alla sua sinistra c’è un citofono, digiti il numero dell’ufficio competente. Si volta, richiude la porta dietro alle spalle, scompare nel suo ufficio. Digito il 224. È occupato. Riprovo alcune volte. Mi risponde una signora. Avrei bisogno del Certificato di residenza fiscale. Aspetti lì. Arriva un’impiegata, mi fa entrare, si ferma sul corridoio. Di cosa ha bisogno?. Le mostro la fotocopia del documento rilasciatomi l’anno scorso. Lei la osserva per qualche secondo con diffidenza. Aspetti qui. Può sedersi, se vuole. Sul corridoio ci sono due sedie. Seguo il suo consiglio. Le porte degli uffici si dischiudono solo per brevi istanti. Entrano ed escono impiegate, ognuna con un foglio in mano. Procedono con la testa alta, senza degnarmi di uno sguardo. Dall’abbigliamento, dal passo, dalla gravità del volto, ipotizzo l’incarico di responsabilità espletato nell’edificio burocratico. Inizia a mancarmi l’aria. Provo a formulare un verso: Risorgeranno i volti/ si desteranno labbra e zigomi/ dischiuderanno gli occhi…. Non faccio in tempo a continuare. È tornata l’impiegata. Stanza 118. Lì le rilasceranno il documento in questione Mi restituisce il foglio. Grazie, arrivederci. È la stanza dove sono stato prima. Scendo di un piano. Mi ripresento all’impiegata. Buon giorno. Tento un sorriso. Buongiorno, mi ha portato il documento da timbrare?. Il sorriso si tramuta in un’espressione d’incredulità. Veramente, mi hanno detto che me l’avrebbe…. Non riesco a finire la frase. Forse non ha capito. È la prima volta che vedo un certificato del genere, come pretende che glielo rilasci?. Mentre cresce l’interesse puramente letterario per l’evoluzione del dialogo impossibile, nella mia testa si disputa una gara: due pensieri si lanciano in volata verso il traguardo delle labbra. Il primo, spinto dall’insofferenza, si cristallizzerebbe in uno sfogo sconsolato: Non ho alcuna intenzione di perdere la mattinata dietro a questo certificato. Che colpa ne ho io se ogni anno inventate nuovi documenti della cui esistenza, poi, non siete neanche al corrente? E con quale sfacciataggine pretendete che debba procurarvi io un documento che voi stessi – e solo voi, in quanto organo competente in questione – potete rilasciare?. Il secondo, mosso dal pietoso sospetto che anche l’impiegata, come me, sia vittima della mutevole nomenclatura burocratica, appellerebbe all’umano buon senso: Signora, mi rendo conto che questo Certificato di residenza fiscale sta creando a tutti non pochi problemi. La segretaria che me lo ha richiesto all’università lo nominava con un filo di voce e gli occhi bassi, lei afferma di non averlo mai visto, io sono il più all’oscuro di tutti. Eppure, l’anno scorso, in quest’ufficio, mi è stato rilasciato. Credo che, con un po’ di fortuna e buona volontà, sarà possibile anche quest’anno. Arriva primo il secondo pensiero. Quando parliamo, mantenendo le labbra lievemente arcuate a sostenere un sorriso, le parole si smussano, il timbro diventa più dolce. Il volto dell’impiegata subisce una trasformazione appena percepibile: la pelle, fino a quel momento tesa, si rilassa, anche la voce cambia. D’accordo, non voglio farle perdere altro tempo in giro da uno sportello all’altro, mi lasci la fotocopia del documento, ci pensiamo noi. Tra quattro giorni, dovrebbe essere pronto. La ringrazio, arrivederci. Arrivederci. Esco dall’Ufficio delle imposte come si scende da un palcoscenico: svuotato, libero, esausto. Ho l’impressione di aver preso parte ad una pièce teatrale in omaggio a Kafka. Fuori il pubblico è composto da potenziali attori come me. Basta varcare quella soglia per entrare in scena. Mi sorprendo divertito ad interrogarmi se sia più letteraria la realtà o reale la letteratura.

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