C’eravamo una volta

Un grande contenitore. Sono d’accordo con l’articolo di Genisio. Nel ’68 avevo vent’anni e credo che la mia giovinezza abbia influenzato non poco il ricordo piacevole che ho di quel periodo. Mi sembra che sia stato un gran contenitore dove c’era di tutto e il suo contrario: all’università capitava che dei colleghi ci avvisassero che di lì a poco sarebbero iniziati scontri violenti con gli avversari di turno, e ci invitavano ad uscire se non volevamo essere coinvolte. Ma anche intorno a te sentivi una forte carica di idealismo, di sogni che potevano realizzarsi; e io, particolarmente sensibile a quest’aspetto, sentivo che collaboravo per un futuro migliore dell’umanità. Certo, se guardiamo i sessantottini adesso, alla prova dei fatti, si capisce che gran parte dei sogni sono rimasti tali per la maggior parte di loro, forse perché erano così grandi che l’uomo con le sue sole forze non può portarli avanti. Liliana Speranza Cerea (VR) Svecchiare. Cosa significa per me, adesso, il ’68? La giovinezza, l’idealità, l’impegno nel sociale. Nell’ottobre del 1968 iniziavo la prima liceo classico. Mi ricordo che avevo preso una camicia e con i colori dei pennarelli avevo scritto il mio programma: lavorare, impegnarsi, farsi buoni, morire. Avevo un prete salesiano come modello, una specie di Che Guevara con la tonaca. Stava iniziando a Milano un gruppo che poi si chiamerà Operazione Mato Grosso. Jeans, capelli lunghi, chitarra e tutte le domeniche a fare le raccolte di carta nei paesi, con un carro trainato dal trattore. Si raccoglieva di tutto e con il ricavato si finanziavano i volontari in America latina. Se non ci fosse stato questo pazzo di prete molti di noi avrebbero preso brutte strade. Guccini era il nostro leader, mentre De Andrè lo si ascoltava nei momenti depressi. I banchi della classe erano rigorosamente a ferro di cavallo per sottolineare la democraticità della scuola. Le interrogazioni erano programmate e il voto collettivo. Ricordo di quegli anni le marce della pace per i diritti dei negri in America e i cineforum con le discussioni interminabili. A casa le mie sorelle hanno svecchiato i miei genitori, che da allora sono rimasti sempre moderni. Il ’68 l’ho vissuto come creatività, fantasia. Non sono mai stato alle manifestazioni violente, nè ho mai visto la droga. Credo che l’ambiente cristiano cattolico che frequentavo abbia fatto da filtro e ho un ricordo positivo di quel tempo. Mi sono divertito (da divergere) anche dopo, all’università di lettere e nella vita. Paolo – Bolzano Un sacco di amici. Il ’68 è stato per me e per molti una condivisione. Un’apertura all’altro che si esprime anche nella frase sincera: Ma tu cosa pensi di questo o di quello?. Penso soprattutto che non sia stata un’ideologia. Lo è stata forse la sua degenerazione, d’altronde comune per tutte le rivoluzioni. Ma il significato profondo è sempre nascosto nel piccolo seme. In quel periodo mi sono fatto un sacco di amici. Potevo parlare in grandi o piccole assemblee e dire il mio pensiero (quando mai a scuola si poteva fare!). Anche i ragazzi più timidi sentivano di esistere. Chi in casa aveva genitori troppo rigidi poteva esprimersi. Quante notti passate fuori al freddo a comunicare e dividere un panino col tuo avversario oppure a ciclostilare con le mani sporche di inchiostro. Tra quelli che avevano la P38 in tasca alcuni divennero miei amici e si dissociarono, altri mi scrissero dal carcere. Quello di cui sono certo è che i brigatisti (abitavano vicino a casa mia) non li abbiamo armati noi. Ma questo è un altro argomento. Pioner Giovanni Stanchezza e individualismo. Lo statuto dei lavoratori è frutto dei moti del ’68. E che conquista è stata poter tenere le assemblee dei lavoratori senza temere il licenziamento o procedimenti disciplinari di vario tipo. Oggi c’è una fase di stanca. I vecchi che hanno faticato per dare sicurezza e stabilità ai giovani sono in pensione. La società civile in tante sue forme ha scontentato e amareggiato i cittadini, allontanando tanti dalla loro partecipazione e responsabilità. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Meno partecipazione alla vita sociale e civile, più disinteresse a tutto, più menefreghismo e individualismo. Individualismo che era stato a sua volta il crollo della spinta ideologica del ’68, nato come movimento di massa, trasformatosi poi in movimento di massa guidato e divenuto infine fabbrica di gruppuscoli che finivano per diventare posizioni individuali. È quanto oggi si ripropone a livello lavorativo: i giovani se ne fregano dei colleghi, badano solo a se stessi e sono convinti che da soli possono aver ragione sul capo e sul padrone. Sono yuppi a tutti gli effetti e noi vecchi li chiamiamo cloni. Si vestono tutti in modo uguale e sognano di sfondare là dove uno o nessuno ce la farà. Individualismo, pecca di ogni società di ogni tempo. Sergio Lorenzutti Trieste Una scelta di vita. Sono un’insegnante in pensione, attualmente dedita alla famiglia e al volontariato. L’esperienza del ’68 ha segnato profondamente tutta la mia vita e sono sempre stata fedele agli ideali della mia giovinezza: uguaglianza, democrazia dal basso, nonviolenza, impegno per il terzo mondo. Ho vissuto il Concilio, l’alluvione di Firenze, la contestazione. D’origine borghese, ho cercato di cambiare razza, sono stata una mamma e un’insegnante democratica, con molte croci. Nel ’68 avevo 24 anni. Anna Maria De Guidè

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