Carceri invivibili, a che punto siamo?

In assenza delle condizioni minime di vivibilità, che prevedono uno spazio di almeno 3 metri quadri per ogni detenuto, il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea per violazione dei diritti dei carcerati. Il tempo a disposizione per evitare nuove richieste di risarcimento e rendere più umana la vita dietro le sbarre è sempre meno. Cosa è cambiato finora?

Le condizioni ideali sembrerebbero esserci tutte questa volta: un governo di larghe intese, nel quale spartirsi equamente responsabilità, una condanna – l'ennesima – rivolta al nostro Paese da parte di un organismo giuridico europeo e infine condizioni detentive degradanti, rimaste inalterate negli ultimi anni. Alle porte di un altro inverno, e superato abbondantemente il giro di boa dei sei mesi – era l'8 gennaio gennaio 2013 quando la Corte europea per i diritti dell'uomo condannava con la sentenza Torreggiani e altri l'Italia per violazione dei diritti dei detenuti e dava un tempo massimo di un anno per porre rimedio – ci si chiede cosa si stia facendo effettivamente in tema di condizioni detentive per evitare che il carcere sia uno spazio di tortura.

Nel Paese delle eterne emergenze (una su tutte quella dei rifiuti) che tali quindi non lo sono più, delle commissioni permanenti che studiano e presentano proposte e progetti, di fatto mai realizzati, e dei buoni propositi al momento delle campagne elettorali, chi si occupa di detenuti ha più di un ragionevole timore che le cose possano restare così come sono. Tutt'al più guadagnare lo spazio di un articolo in una pagina di giornale al nuovo caso di violenza o suicidio dietro le sbarre o denunce di detenuti. E poi l'oblio.

«Alcune novità ci sono, ad esempio la commissione governativa istituita dal ministro Cancellieri presso il ministero di Giustizia e coordinata da Mauro Palma, ex presidente del Cpt e primo presidente di Antigone (ecco perché ci sentiamo rappresentati lì dentro) – spiega Alessio Scandurra, membro dell'associazione, che monitora le condizioni di vita di chi sta in carcere –. Da poco poi è entrato in vigore il decreto Severino, ma bisogna attendere e vedere l'incidenza sulle presenze detentive. E poi, la grande novità è che quantomeno il governo ha smesso di introdurre nuovi reati e portare più gente in galera, una tendenza – aggiunge Scandurra – durata a lungo». 

Eppure non ci sono dubbi che le condizioni detentive continuino a essere sempre in bilico tra il legale e l'illegale, con il limite rappresentato dai fatidici 3 metri quadrati di spazio a persona, al di sotto dei quali l'Europa parla di violazione dei diritti umani. Una realtà che ha bisogno di misure urgenti e non più rinviabili. Su questo punto sono concordi associazioni, legali e garanti dei diritti dei detenuti. «L'amnistia, al momento, è l'unica via percorribile. Tutto il resto verrà dopo. Ma se si vuole fare qualcosa di immediato per rimediare alle condizioni dei detenuti e cominciare ad adeguarsi alla sentenza pilota della Corte di Strasburgo è questo quello che si deve fare», interviene il coordinatore dell'Unione forense per la difesa dei diritti umani, sezione siciliana, il penalista Ermanno Zancla, nonché promotore e co-amministratore del “Libro bianco carceri”, iniziativa per la tutela dei diritti dei detenuti. «Non dimentichiamo – aggiunge il legale palermitano – che le condizioni delle carceri continuano a essere le stesse di quelle denunciate nei mesi scorsi, dove ad esempio il 40 per cento di chi sta dentro è in attesa di giudizio».

«L'unica cosa che può avere un impatto vero e reale sulle condizioni di detenzione è l'amnistia – gli fa eco Scandurra –. Altri provvedimenti non sono altrettanto immediati e soprattuto è un'operazione culturalmente più complessa perché si tratta di cambiare il sistema. Di commissioni ce ne sono già state – continua Alessio Scandurra – così come di proposte di riforme. Quello che c'è da fare si sa già. Insomma non c'è nulla di nuovo sotto il sole».

Le misure del governo non sembrano ancora all'altezza della situazione, come spiega Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, una delle regione in cui le condizioni detentive sono tra le più critiche nella Penisola: «Il Parlamento ha varato una mini riforma che prevede, tra le altre cose, un parziale svuotamento grazie agli arresti domiciliari per detenuti con fine pena inferiore a 4 anni, riduzione per buona condotta, etc. «Ma allo stato, non hanno prodotto granché – spiega Fleres –. In Sicilia, ad esempio, si è passati da 7.100 reclusi a 6.700, a fronte di una capienza regolare che non dovrebbe superare le 5 mila unità. Nel resto del Paese, si è passati da 66 mila reclusi a 64 mila. Ben poca cosa rispetto alla capienza regolare, che non dovrebbe superare le 46 mila unità». Senza contare le condizioni degli edifici, spesso con problemi strutturali «e con pesanti situazioni debitorie nei confronti degli enti che forniscono gas, luce e acqua, forniture che vengono quindi razionalizzate – racconta Alessio Scandurra – o i casi in cui la rottura di una finestra o della caldaia non sono risolti in poco tempo».

Eppure l'Italia non può dimenticare di avere la spada di Damocle sulla testa: l'anno di tempo dato dalla sentenza Cedu per intervenire su quella che viene definita “emergenza carceri”. Ma è davvero emergenza? «La nostra è la "normale emergenza" di un Paese che ha dimenticato di essere stato la patria di Beccaria, Verri, Calamandrei, Sciascia, Tortora e tanti altri – risponde il garante dei diritti dei detenuti siciliani – che, sul tema dei diritti umani hanno costituito dei veri e propri capisaldi della cultura giuridica mondiale. Il fatto grave è che, dalle parti di Palazzo Chigi, ancora nessuno se ne vergogni abbastanza, scaricando sui cittadini le proprie indecisioni e le proprie inefficienze politiche e di governo».

A lui si aggiunge il commento dell'avvocato Zancla: «Non si tratta di emergenza, ma di una situazione diventata purtroppo normale. Adesso però tocca fare i conti con la sentenza della Cedu e non è come aver ricevuto uno schiaffetto di biasimo in faccia. Se il nostro Paese non adotterà l'unica misura al momento possibile, ovvero l'amnistia, si ritroverà con una serie enorme di cause con richieste di risarcimento per violazione dei diritti umani. Cosa che in questo periodo di crisi – conclude Zancla – non credo proprio ci si possa permettere».

Come gestire però l'impatto sociale di una eventuale amnistia? «Alla fine si tratta di circa 30 mila persone a fronte di un Paese con quasi 60 milioni di abitanti – fa notare Scandurra –. E poi di certo quello che non si è fatto in precedenza in termini di recupero e formazione non lo si farà nel tempo mancante per la fine della pena». «In ogni caso – tranquillizza il rappresentante di Antigone – i dati dell'amnistia del 2006 dicono che la recidiva degli amnistiati è stata molto più bassa di quella dei detenuti usciti dopo aver scontato tutta la pena. Inoltre, per chi è al primo reato, questo provvedimento rappresenta un disincentivo perché se si viene condannati, ti fai la pena nuova più il residuo che mancava in precedenza».

Pessimisti su un'effettivo cambio di rotta del nostro Paese sono Salvo Fleres – «Non c'è la voglia di aprire un dialogo, dunque, risulta difficile ipotizzare qualcosa. Si può solo sperare nel buonsenso, auspicando che, per dirla con Manzoni, non si sia nascosto, per paura del senso comune» – e il co-amministratore del Libro bianco carceri, l'avvocato Zancla, che afferma: «Uno degli effetti della sentenza Torreggiani è di aver congelato denunce simili a quelle che  hanno portato alla pronuncia della Cedu, fissando in maggio il tempo massimo per risolvere la questione. Noi intanto stiamo continuando a raccogliere le denunce dei detenuti, anzi invitiamo i legali a chiedere ai propri assistiti di raccontare quali sono le condizioni in cui vivono. Se in estate non sarà cambiato nulla, come sospettiamo purtroppo – conclude Zancla – porteremo a Strasburgo tutte le cause raccolte per violazione dei diritti umani».

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