Cappellani sul fronte dell’Est

A colloquio con don Stepan Sus, responsabile della cappellania militare della Chiesa greco-cattolica ucraina. Il lavoro duro e silenzioso di supporto ai soldati nel Donbass. Il loro nazionalismo radicale
Ucraina

Don Stepan Sus, prete greco-cattolico, è il coordinatore della Cappellania militare della sua Chiesa. Lo incontro in un caffè accogliente e caldo nel centro mitteleuropeo della città di Lviv, cioè Leopoli. Il loro centro operativo è la barocca chiesa dei gesuiti, i cui ori vengono restaurati poco alla volta, a seconda del denaro disponibile, creando un puzzle fantasmagorigo nell’interno, ora brillante ora opaco. Quasi una metafora dell’attuale Ucraina.

Mi può descrivere il servizio che svolge la cappellania militare della vostra Chiesa?

«È tempo di responsabilità, è tempo di costruire una Nuova Ucraina. Noi assumiamo questa responsabilità cercando di aiutare i nostro soldati impegnati contro i terroristi, cioè i ribelli, cioè i separatisti… Dapprincipio c’è il supporto materiale. Per quanto possa sembrare incredibile, i nostro soldati sono stati mandati al fronte senza scarpe, senza calze, senza nulla, perché il governo Yanukovich, d’accordo con Putin, aveva fatto di tutto per svuotare l’esercito ucraino di ogni forza. I magazzini erano stati completamente svuotati di armi e di ogni altro materiale. Bastava un esercito ridotto, non c’era bisogno di proteggersi dal vicino russo, bastavano poche unità d’assalto superequipaggiate al servizio del regime di Yanukovich. Non era proprio il tempo di creare un nuovo esercito ucraino. Ora con i soldi che raccogliamo (in un mese nella nostra chiesa siamo riusciti a raccogliere ben 7 milioni di grivne, cioè quasi 400 mila euro!) cerchiamo di aiutare i soldati. Ovviamente offriamo loro ogni sorta di equipaggiamento, salvo le armi. In secondo luogo, ci prestiamo per un supporto spirituale ai soldati. I cappellani non sono riconosciuti dallo Stato e quindi il lavoro è reso più difficile. Ma tanti soldati, che hanno una fede cristiana, si sentono aiutati da noi. Nell’Est attualmente abbiamo una ventina di cappellani in servizio permanente. Ogni giorno celebrano la messa, confessano, danno un supporto spirituale ma anche psicologico. I ragazzi si aprono e confidano anche problemi personalissimi. Il lavoro psicologico è tra l’altro iniziato già all’indomani della Maidan. Il nostro lavoro comincia prima del campo di battaglia, già nelle scuole e nelle accademie militari. Non è raro che qualcuno chieda il battesimo».

Siete i soli ad avere cappellani militari?

«Ci sono altri cappellani militari, nella Chiesa latina, nella Chiesa ortodossa ucraina e in quella legata a Mosca. Ma certamente fanno un lavoro senza continuità. In particolare l’organizzazione è simile a quella di una parrocchia, con cappelle locali presso delle unità militari. Ma i cappellani debbono essere coi soldati, vicini ai soldati e non aspettarsi che essi vengano da te».

Anche dall’altra parte ci sono cristiani che pregano lo stesso Gesù perché li aiuti a vincere la guerra…

«I funerali sono diversi. Dalla nostra parte i morti vengono considerati degli eroi che hanno dato la vita per la loro patria e per la democrazia. Dall’altra parte non è così, non vengono celebrati veri e propri funerali cristiani, ma semplici cerimonie militari. I combattenti dell’altra parte non vivono da cristiani ma usano alcol e droghe, medicine euforizzanti. Noi, invece, stiamo difendendo il nostro territorio, non quello dei vicini. Non abbiamo aggredito nessuno, non abbiamo attaccato nessuno. Ci difendiamo semplicemente. Quindi Dio certamente ci sta benedicendo. E poi noi non benediciamo i carri armati ma i soldati!».

Quella che si sta svolgendo nel Donbass è una guerra giusta secondo i canoni della dottrina sociale cristiana?

«Siamo impegnati in una guerra contro l’ideologia della Grande Russia. In qualche modo si vorrebbe ricreare una sorta di Impero romano o un Califfato in cui i popoli vengono semplicemente sottomessi e schiacciati. Dobbiamo cambiare il nostro spirito: non stiamo facendo la guerra, ci stiamo difendendo contro una grave ideologia dittatoriale».

Quali saranno i risultati di questa guerra?

«Non stiamo più capendo esattamente quel che sta succedendo. 150 chilometri di frontiera ucraina non sono controllati più dai nostri soldati. Questa guerra deve finire! Quest’aggressione va eliminata. Se fosse accaduto ad un altro Paese europeo, tutti l’avrebbero soccorso. Cosa che non è successo nel caso ucraino. I combattenti dell’altra parte sembrano agire da terroristi ma hanno le uniformi russe senza mostrine. La guerra, purtroppo, non finirà rapidamente, non ci sarà un trattato finale di pace, perché è un conflitto contro un’ideologia. Finora sembra che vi siano stati 4 mila morti solo nella parte ucraina, ma una buona parte delle vittime non si sa che fine abbiano fatto. Ci sono prigionieri, ma non si sa se siano ancora in vita. Qui abbiamo finora celebrato 16 funerali solo nella nostra parrocchia».

Riuscite a parlare di pace, della pace cristiana, ai vostri soldati?

«Sì. Per noi significa avere pace nella propria coscienza, anche se poi si spara, anche se poi si uccide. Odiare i nemici? Bisogna dimenticare tali elementi, perché noi difendiamo, non attacchiamo, siamo dalla parte della verità e della giustizia. Non vogliamo uccidere nessuno, vogliamo solo difendere la libertà e la giustizia. I nostri nemici sono anch’essi esseri umani, non vorremmo che morissero o rimanessero feriti. Questa guerra deve finire presto».

Talvolta si accusano i nazionalisti di essere dei fascisti…

«I russi definiscono fascisti tutti coloro che non accettano la loro logica. Il centro di questo mondo sarebbe Mosca. Certo, ci sono alcuni gruppi, come Pravi Sektor, che hanno un nazionalismo spinto e “muscoloso” che sfiora il fascismo. Ma sono gruppi piccoli, minoritari. Nell’esercito questa ideologia fascista non esiste proprio, tranne in piccole frange che comunque non hanno molto peso. Se poi gli affiliati di Pravi Sektor vanno a combattere per conto loro, questo è un altro discorso».

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