Buon compleanno, Robinson!

300 anni or sono veniva pubblicata l’opera più famosa di Daniel Defoe, che ha ispirato innumerevoli romanzieri, artisti e registi

Da ragazzo, uno dei primi libri che scatenarono in me l’amore per la lettura fu Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Ricordo ancora l’editrice e l’anno di pubblicazione: Lucchi, 1940. In copertina il cognome era accentato in Crusoè: raffigurava un uomo barbuto col cappuccio e vestito di pelli, incedente su una spiaggia all’ombra di un rudimentale ombrello; era armato di fucile e un’ascia gli pendeva alla cintola. Avventura allo stato puro, quella del giovane marinaio inglese finito, dopo il naufragio della sua nave, su un’isola deserta dell’Atlantico dove per sopravvivere è costretto, nei lunghi anni di permanenza, a fare appello a tutte le sue risorse in un universo spesso ostile, portandovi da vero pioniere la civiltà di cui egli è espressione.

Anni dopo, da adulto, scoprii che quel primo Robinson era una versione alleggerita dalle lungaggini e dalle considerazioni filosofico-religiose di cui era stata infarcita dall’autore. E anche se la lettura del testo integrale non mi restituì tutto il fascino dell’altra, in compenso appresi che quello pubblicato a Londra nel 1719 era il primo romanzo di un sessantenne che aveva fatto il commerciante, il giornalista, il politico e l’avventuriero (compresa la spia). Sull’onda dell’enorme successo ottenuto dal supposto resoconto di una vicenda reale narrata in prima persona, Defoe si affrettò a scrivere altri due sequel di Robinson, rivelatisi però un fiasco, più numerosi altri titoli tra i quali veri capolavori come Moll Flanders e Lady Roxana.

Primo vero romanzo moderno della letteratura inglese e una delle letture più popolari per adulti e giovanissimi di tutto il mondo, La vita e le avventure di Robinson Crusoe diede origine ad una vera folla di imitatori, che più o meno felicemente si cimentarono nel narrare – con molte variazioni sul tema – le peripezie di uno o più personaggi isolati dalla loro civiltà, in seguito a un incidente, in un’isola sconosciuta o in un deserto: spesso autori di tutto rispetto come Jules Verne, che riuscì a sfornare ben cinque titoli (L’isola misteriosa, La scuola dei Robinson, Due anni di vacanza, Seconda patria e, postumo, Zio Robinson); o come Michel Tournier che col suo Venerdì o la vita selvaggia ne fece una parodia irresistibile per humor, leggerezza e un pizzico di poesia.

Il nuovo genere letterario a cui aveva dato il via Defoe, talvolta considerato un sottogenere del romanzo d’avventura, prese il nome di Robinsonade (in italiano: Robinsonata), termine coniato per la prima volta dallo scrittore tedesco Johann Gottfried Schnabel, che lo utilizzò nell’introduzione del suo fortunato libro Die Insel Felsenburg del 1731.  Cinema e televisione avrebbero poi attinto innumerevoli volte da questo spunto, che sembra non conoscere tramonto. Del resto le peripezie del naufrago che una tempesta ha scagliato su un’isola sconosciuta risalgono all’epoca di Omero, e appassionano l’uomo di tutti i tempi che ha sempre bisogno di farsi raccontare le stesse favole.

Cosa ha portato di suo Defoe in questo archetipo? Secondo la lettura che ne dà, le disavventure capitate al giovane Robinson prima e dopo il fatale naufragio sono il risultato della sua disobbedienza al padre, che avrebbe voluto vederlo avvocato piuttosto che marinaio. Tuttavia con ciò che ha recuperato dalla nave, comprese alcune copie della Bibbia, Robinson non si perde d’animo e si mette all’opera per assicurarsi una esistenza passabile, sempre nella speranza di essere preso a bordo da qualche nave di passaggio. In pratica ricostruisce sull’isola il mondo britannico da cui proviene, dimostrando con ciò che chi è provvisto d’ingegno e razionalità, può – confidando in Dio e nella sua provvidenza – averla vinta su tutte le avversità.

Dopo qualche anno, l’assoluta solitudine di Robinson cessa col salvataggio dai cannibali dell’ottimo Venerdì, il servo fidato e prezioso collaboratore di cui è narrata la conversione alla fede cristiana. In seguito l’arrivo di una nave inglese di ammutinati, messi in condizioni di non nuocere, gli consente di salpare per l’Inghilterra, dove i suoi lo credevano morto. Lì con sorpresa l’ex naufrago scopre che le sue piantagioni in Brasile, a cui si era dedicato in epoca precedente, lo hanno reso ricchissimo. Dopo averle vendute, mentre fa ritorno in Europa, vive altre avventure, mette su famiglia e per un breve periodo diventa governatore del lembo di terra nel quale è vissuto per circa trent’anni; infine si ritira a vita privata nella natia Inghilterra.

L’intero racconto esprime la fiducia incrollabile dell’uomo, artefice del suo destino, nei propri mezzi e nella benevolenza di Dio (aiùtati che Dio ti aiuta!), vero mito della classe borghese e devota cui Defoe apparteneva: di qui la fortuna immensa riscossa presso i lettori borghesi da questo nuovo tipo di eroe.

Lo conferma Lodovico Terzi nella sua Prefazione a La vita e le avventure di Robinson Crusoe, riproposte ora da Adelphi, allorché individua le fonti del romanzo nella ragioneria e nella Bibbia, intese come «il livello zero della cultura della middleclass mercantile e nonconformista tra la fine del ‘600 e il principio del ‘700, in Inghilterra». Indice di un’alta qualità dello spirito, egli riconosce a Robinson la «capacità di ritrovare alla fine, nelle situazioni o nelle fantasie più disperate, il senso del suo business, il senso della realtà oggettiva e della sua individualità cosciente e razionale […]: ciò che lo rende uomo e gli impedisce di cedere alle forze oscure dell’indistinto, e di restarne sommerso, come i bruti». E conclude: «Robinson Crusoe è un libro che è stato e sarà letto in molti modi. A noi è piaciuto leggerlo soprattutto come la storia di un uomo che […], quando ha dei problemi, prima se li riduce alla sua misura e poi li risolve davvero».

 

 

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