Buon compleanno, 007!

Chi conosce Edgar Burroughs? Certamente pochi, in confronto a quelli che conoscono Tarzan, l’eroe da lui inventato. C’è gente come Burroughs – ma anche come il nostro Salgari creatore della saga di Sandokan, o Conan Doyle con il suo Sherlock Holmes – che non godrà mai d’un posto d’onore nei cenacoli della Letteratura Colta, ma che tuttavia è riuscita a creare personaggi letterali mitici, diventati parte dell’immaginario d’una grandissima fetta d’umanità. Autori forse non troppo raffinati, che hanno essenzialmente mirato a divertire e affascinare ma che, con una scrittura semplice ed efficace e una fervida immaginazione, sono riusciti a stabilire con il lettore un legame straordinariamente forte e coinvolgente. Cosa che non sempre riesce a tanti autori “colti”. È a questo gruppo di scrittori che appartiene Ian Fleming, l’ideatore di James Bond, ovvero 007, l’agente segreto più famoso del mondo. James Bond nacque in Giamaica nel 1952, proprio cinquant’anni fa. Lì, fra spiagge di sabbia dorata, fra palme e il canto di uccelli esotici echeggiante in tramonti mozzafiato, Ian Fleming, irrimediabile libertino appena sposato, accompagnava con l’eterna sigaretta fra le labbra e con continui drink i battiti sulla tastiera della macchina da scrivere. Dalla quale in breve tempo sarebbe uscito il suo primo libro: Casinò Royale. Fu un inizio assai modesto: il libro vendette soltanto qualche migliaio di copie in Inghilterra e assai di meno negli Usa. Ma nel giro di qualche anno il successo di James Bond sarebbe divenuto folgorante. Da allora Fleming consegnò alle stampe romanzi tradotti poi in almeno trenta lingue, e tuttora in continua ristampa: ne sono state vendute circa cento milioni di copie. Ma tutto questo è niente in confronto al caso cinematografico, che con 20 film ha immortalato l’agente 007, creando un filone con tante imitazioni non sempre ben riuscite. L’autore e il personaggio da lui creato spesso s’assomigliano. A volte hanno un rapporto stretto, da padre e figlio; e il padre cerca sempre di dare al figlio quel qualcosa in più che lui non ha avuto, quella possibilità a lui manca- ta. È certamente questo il nostro caso: Fleming e Bond s’assomigliano assai. Ian Fleming nacque a Londra, nel 1908, da una famiglia aristocratica. Il granchio di ferro – così lui chiamava la morte – lo afferrò nel ’64, proprio al culmine del successo mondiale della sua creazione. Morì per un attacco cardiaco: le sregolatezze d’una vita intera presentavano il loro conto. Del resto lui non s’era fermato di fronte ai campanelli d’allarme di diversi malanni fisici, nei 56 anni della sua esistenza. Da ragazzo studiò nel celebre college di Eton, ma terminò gli studi con difficoltà; si distinse invece nello sport, tanto da essere citato come il miglior atleta del college in quel periodo. Più tardi s’appassionò d’alpinismo e di sci, sport che sarebbero tornati spesso nei racconti di 007. Era un gran bevitore, amante delle auto sportive. Ebbe svariate vicissitudini amorose. Fin da giovane amava frequentare i casinò. Ma puntava con parsimonia, e rincasava con il magone nel cuore se perdeva. Col “figlio” letterario 007 lo scrittore si prese così una rivincita: avrebbe sempre vinto e stracciato ogni banco, baciato da una fortuna inscalfibile. Fleming divenne poi giornalista per la Reuter; fu inviato a Mosca del Times; fu consulente finanziario; fondò un club dedicato ai cultori della gastronomia e dei giochi d’azzardo. Entrò quindi nel servizio segreto della Marina britannica, facendo da regista a tutta una serie di operazioni che in seguito gli avrebbero consentito di mettere a fuoco il personaggio di 007. Fleming scrisse 12 romanzi di spionaggio su James Bond; e curioso curioso… anche un racconto surreale per ragazzi dal titolo Citty Citty Bang Bang. Nel quale un geniale ma squattrinato inventore compra i resti d’una gloriosa auto da corsa e la rimette in sesto. Con essa, sulle ali della fantasia, l’inventore e la sua allegra combriccola passeranno da un’avventura all’altra, in terra e in cielo. È ben conosciuta la versione cinematografica. Così, questo era il padre. E il figlio Bond? Chi lo conosce dai libri sa che, pur essendo scaltro e invincibile – novello misto di Ulisse e Achille – prima di ogni missione è quasi sempre perplesso. Chi lo conosce al cinema, con i volti di Sean Connery, Roger Moore e Pierce Brosnan ignora del tutto queste sue pur modeste debolezze. 007 è incredibile, leggendario, sproporzionato in tutto ciò che fa e gli accade. È forte, bello, capace: mai una sbavatura. È esperto in tutto, dalla fisica atomica alle arti marziali, al vino. Donne bellissime sono ammaliate dal suo fascino. Lui trionfa sempre. Questo personaggio così sfrontato non è mai piaciuto ai critici, né a tanta gente di cultura e di scienza. Proponendo l’emblema di una mascolinità aggressiva, ha giustamente infastidito femministe di varie tendenze. Ma niente è più sano del non prenderci troppo sul serio; saper ridere, anche delle proprie certezze, è un segno di grandezza d’animo. Se è vero che le vicende confezionategli dal suo autore sono sempre un po’ troppo favolose ed esasperate, che le trame sono semplici e schematiche, è pur vero che James Bond è riuscito ad affascinare e a divertire un pubblico di quasi un miliardo di persone. Forse perché risveglia sogni frustrati e nascosti dentro di noi, poveri mortali; o perché l’essere così eccessivo in tutto – quasi un fumetto, una caricatura del reale – concede un facile e innocuo distacco dalla quotidianità, regalando momenti di evasione. In un bell’articolo di Elena Loewenthal si legge che l’ebreo religioso è tenuto a recitare una particolare benedizione ogni volta che vede uno spettacolo o assiste a un fenomeno eccezionale, fuori da canoni, ma non per questo deplorevole o indegno. “Ringraziare Dio per il suo impegno a non annoiarci – scrive – a non essere mai monotono, è un modo assai convincente, credo, per dire che il mondo è bello proprio perché vario”. Se non altro per questo, per aver contribuito a non farci annoiare, grazie Fleming!

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