Bruce Springsteen: risollevarsi da Ground Zero
Se c’era un artista in grado di raccontare dell’11 settembre senza scadere nella retorica o venir accusato di sciacallaggio questo era proprio il Boss del New Jersey. The Rising (Sony Music), il suo nuovo album, è inscindibilmente legato alla tragedia più grande della post- modernità, ma l’affronta con la sensibilità appassionata di un poeta, e non col piglio del parasociologo opportunista. Più che speculare sul dramma dei morti e dei sopravvissuti, scandaglia le cause che l’hanno generato e ci racconta quanto tutto questo lo – e ci – abbiano segnato, e anche quanto potrebbe renderci migliori, aiutando l’amore – come canta in World Apart -, a dare quello che ha”. Più i tempi sono difficili e confusi e più sono gli artisti veri a tentare di darne un senso, a illuminare le tenebre. E Springsteen ci prova con l’onestà anti-intellettuale di sempre, come sempre partendo dal suo personale sentire. Nelle nuove canzoni il cinquantatreenne Bruce dà voce al dolore della sua America che è poi quello dell’intera civiltà occidentale, tra il sangue, le lacrime, e la desolazione di cieli vuoti; canta l’eroismo dei pompieri e lo strazio dei sopravvissuti con un’intensità tale da rendere secondari gli aspetti squisitamente formali di questa sua dodicesima avventura in sala d’incisione che lo ha riportato fra le robuste braccia della rediviva E-Street Band. L’umanesimo di Springsteen acquista tra i solchi il sapore della pietas cristiana e non è certo un caso che, per la prima volta nella sua quasi trentennale carriera, l’artista abbia tirato in ballo Dio: “Con queste mani, Signore, prego di avere la forza/ Con queste mani, Signore, prego di avere la fede/ Signore, preghiamo per i perduti/ Signore, preghiamo per questo mondo” (dalla profetica My city of ruin, scritta appena un mese prima della catastrofe). Ma c’è anche dell’altro, a cominciare dall’urgenza di costruire nuovi ponti tra diversità razziali, culturali e religiose (eloquente a questo proposito la presenza in sala d’incisione del pakistano Asif Ali Kahn); e dal senso di fratellanza che proprio questa tragedia assoluta può suscitare tra i singoli individui, tra le pieghe e le storie di quell’umanità comunissima che ha sempre nutrito la sua poetica. Ed è uno Springsteen elegiaco quello di The Rising, ma fiducioso che dai mille drammi dell’oggi possano nascere nuovi germogli di redenzione: la strada per un ennesimo american dream e una nuova terra promessa, possibilmente meno tortuosa ed evanescente di quelle battute fino ad oggi: “Il nostro destino è compiuto nelle mani di Dio/ Il tuo paradiso è qui nel mio cuore/ Il nostro amore è questa polvere che ho sotto i piedi” (da Nothing Man). Quanto alla musica, le quindici nuove canzoni svelano una sorprendente varietà di toni: c’è il rhythm’n’blues urbano e sudatissimo dei suoi anni ruggenti come nell’iniziale Lonesome day, il folk asciutto dei suoi ultimi lavori (Into the fire e Paradise), il pop-rock d’autore di Waiting on a sunny day e le ballad countryeggianti, l’enfasi e l’intimismo, perfino qualche inedito tocco etnico. È presto per dire se lo ricorderemo come un capolavoro assoluto o, più prababilmente, come un necessario riepilogo per traghettare lo Springsteen del vecchio Millennio verso quello che verrà. Certo è che raramente un album ha saputo attraversare l’anima di una tragedia con tale intensità e, simultaneamente, con tale dolente levità. Energia e leggerezza: proprio ciò che occorre per risollevarsi dalla polvere delle Twin Towers. Franz Coriasco D Novita Solomon Burke: Don’t give up on me Anti – Sony Classe 1936, Solomon uno dei mammasantissima del soul, anche se nel corso della sua più che quarantennale carriera ha sempre raccattato meno di quel meritava. Oggi lo ritroviamo in tutto il suo splendore a cimentarsi con una manciata di soul-ballad personalmente offerte da gente del calibro di Dylan, Van Morrison,Tom Waits, Elvis Costello. Sapiente la produzione del giovane Joe Henry, segnata da una sobrietà d’impatto che dà ancor più risalto al carisma interpretativo del nostro. Ashanti: Ashanti universal L’ultima reginetta del pop nero cavalca formule assodate: soul più hip hop addomesticato, più un viso d’angelo adagiato su un corpo da pantera. Le varie Mary J.Blige e Alicia Keys debbono cominciare a guardarsi le spalle. Andrea bel gesto: Non è successo niente Nun – Edel Col tempo magari si farà, questo giovanotto bresciano dall’ancor troppo acerbo talento. Ma piuttosto che il verso ai soliti Gazzè e Fabi, farebbe meglio a maturare uno stile più personale. Nel frattempo, qualche passaggio in radio se l’è guadagnato. Robert Plant: Dreamland Universal Gallina vecchia fa buon brodo. Almeno nel caso dello stagionato vocalist degli arcimitici Led Zeppelin, ancora capace di regalarci qualche brivido tornando al suo antico e mai sopito amore: il blues.