Borovnica ’45

Accade di conoscere storie incredibili e terribili dai migranti e rifugiati che abitano tra noi. Sono narrazioni custodite con riserbo, nel timore di non essere creduti. La cognizione della dignità violata si può comprendere solo all’interno di una comunità. Primo Levi ci ha testimoniato l’amarezza di non essere creduto o di sentirsi dire da molti editori, a proposito dei campi di sterminio nazisti, sono cose che non interessano nessuno. Questo libro edito dalle Edizioni Paoline, infatti, trae la sua origine da un racconto orale raccolto nei ritrovi serali dei vicini e dei parenti che ancora si tenevano, nei primi anni del secondo dopoguerra, tra gli abitanti dei villaggi sulle Alpi Cozie in Piemonte, dove è presente un’identità culturale originale, quella provenzale, cui l’autore di Borovnica 45, dichiara con orgoglio di appartenere. Le memorie documentali di Gianni Barral raccontano le storie orribili dei campi di prigionia per italiani su quel confine orientale, tra Italia e Slovenia, dalla definizione incerta e contrastata, tanto da suscitare un odio violento e sordo che appare come la dimostrazione scientifica di quella frattura esistenziale dell’uomo che chiamiamo peccato originale. Non si tratta quindi di identificare una tara in una razza o in un popolo. Barral ama la cultura slovena, ne impara la lingua e ne suona le canzoni. Durante la guerra si innamora di una ragazza del posto che diverrà sua moglie, sperimenta una dimensione dell’accoglienza e, seppur alieno da ogni motivazione ideologica, decide di tornarvi volontario nel febbraio del 1944 dopo la confusione dell’Armistizio. C’è, nel suo agire, come una richiesta ostinata di normalità che emerge nello smarrimento collettivo e si traduce nella ricerca di libri di grammatica, nella continua esigenza di trovare legami e comprensione. Nonostante ciò, arriva l’internamento nel campo di prigionia di Borovnica, dove riceve una collocazione protetta come traduttore anche se, certe volte, non serve alcun traduzione per la ferocia che uccide e tortura per i motivi più insignificanti. Per chi detiene il potere, infatti, l’arbitrio è un aspetto del terrore che si vuole imporre con l’intento di riduzione dell’essere umano a cosa, a materiale inerte e senza difesa. La realtà, inoltre, si manifesta più complessa di ogni schema, tanto che, nel libro, troviamo un personaggio come uno dei commissari politici delle truppe di Tito che non nasconde la sua religiosità e la bontà d’animo anche se può fare poco, ed è reso impotente di fronte alla violenza; mentre un maresciallo italiano si offre di tenere la disciplina dei suoi compagni di prigionia ritagliandosi una fetta di dominio che saprà usare con incredibile propensione alla sevizia nell’adempimento delle pratiche di tortura. Ma la banalità del male, ben conosciuta nell’analisi dei genocidi del Novecento, si arresta di fronte ad un carceriere in cui è scomparsa ogni traccia di umanità. E questo macellaio inquietante, nelle poche parole che usa, parla la bella lingua di Barral: era un provenzale come me! che aveva aderito al comunismo totalitario e si era temprato nella mattanza della guerra civile spagnola. Come è scritto nel celebre canto della resistenza italiana, Pietà l’è morta, la guerra è spaventosa perché giunge ad uccidere anche la pietà, in una necessità incontenibile di sangue da versare; ma accade che quei prigionieri, consegnati alla misera condizione subumana, passando malconci in un villaggio, incrociano lo sguardo di donne che piangono su di loro. Basta uno sguardo per recuperare la dignità, il cuore si riscalda , come dice Barral. Questo nostro tempo, in cui ancora, in Europa, si fanno ritrovamenti degli ordigni bellici, appare maturo per riconsiderare la storia fuori dalla propaganda. Sappiamo, esemplificando, che gli italiani non sono sempre stati brava gente, che gli alleati usarono in modo indiscriminato il bombardamento al fosforo sulle città tedesche, che il fungo atomico non era giustificabile e che la lotta di liberazione in Italia, per mantenere il suo valore, non può trattarsi come la rappresentazione semplificata di buoni e cattivi. Su tutto, infine, va riconsiderata quella frattura epocale della inutile strage della prima guerra mondiale che ha fatto da incubatrice ad ogni follia. Il libro-diario su uno dei crimini di guerra subiti indiscriminatamente dagli italiani, ad opera del regime di Tito, si chiude con una dichiarazione dell’ Associazione Concordia et Pax che riunisce italiani e sloveni legati dalla convinzione che la purificazione della memoria nasce dalla conoscenza dei fatti, delle ragioni che questi sottendono . Lo possiamo leggere come un invito a non scordare nessuno, a vedere ogni nome trascritto nella sua sacralità, ad aprire gli occhi sulle violazioni della dignità umana che si commettono ai nostri giorni e che subiscono l’imposizione del silenzio per necessità diplomatiche. Come qualcuno ricorda spesso, la misura del nostro giudizio sul mondo può avere come metro quella condizione estrema, ma veritiera che si traduce con le parole erano i tempi di guerra….

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