Bombe, è ora di riconvertire la produzione

Per un anno e mezzo la Rwm non produrrà armamenti, ma ora è necessario offrire alternative occupazionali ai lavoratori, per evitare licenziamenti e disoccupazione. L'intervento del coportavoce del Comitato per la riconversione della fabbrica.
Foto Del Gatto

Lo scorso 29 luglio il governo ha finalmente sospeso tutte le autorizzazioni all’esportazione di bombe d’aereo e delle loro componenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.

La decisione, motivata dal rispetto della legge 185/90 e dai trattati internazionali che dispongono il divieto di esportazione verso paesi in guerra, arriva a 4 anni dall’inizio del conflitto yemenita, in cui, è documentato, le bombe prodotte dalla Rwm in Sardegna – tra Iglesias e Domusnovas – hanno trovato impiego da parte dei bombardieri della coalizione saudita.

Numerosissime organizzazioni nazionali ed internazionali hanno fortemente chiesto questo provvedimento ma, nel territorio, si è esposto particolarmente il Comitato Riconversione Rwm, formato da oltre 20 aggregazioni che, oltre al Movimento dei Focolari, comprendono, ad esempio, la Chiesa Evangelica Battista, l’Arci, l’Anpi, Legambiente Sardegna, la Caritas diocesana con altri soggetti locali e nazionali.

Tutti insieme a chiedere l’embargo verso l’Arabia ma, contemporaneamente, tutti a lavorare concretamente per la salvaguardia dei posti di lavoro, anche con studi e ricerche rivolte all’individuazione di possibili attività alternative e dei percorsi per realizzarle.

È difficile dire quanto abbia pesato sulla decisione governativa il lavoro del Comitato, costantemente rivolto a tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica, delle istituzioni, delle forze politiche e dei sindacati sul tema delle responsabilità italiane verso una guerra davvero drammatica, definita dagli esperti Onu “la maggiore emergenza umanitaria di questo secolo“.

Certo è che l’Italia non arriva per prima in Europa a fermare il traffico di armi verso quei Paesi e che, per almeno 4 volte, il parlamento europeo ha chiesto che si fermassero i convogli delle bombe, con motivazioni umanitarie, etiche e soprattutto giuridiche molto ben fondate.

EPA/YAHYA ARHAB
EPA/YAHYA ARHAB

A fronte della presa di posizione del governo – che ha il buon sapore della giustizia e della legalità rimane però a rischio il futuro lavorativo di un discreto numero di persone, finora impiegate, più o meno direttamente, nella produzione delle ventimila bombe richieste dall’Arabia Saudita, in un territorio che, purtroppo, è ai primi posti per il tasso di disoccupazione.

Sono infatti oltre 300 i lavoratori impegnati dentro la fabbrica anche se non tutti sono direttamente in pericolo di licenziamento a causa della sospensione, che riguarda circa il 40% dell’attuale produzione.

C’è da considerare che la gran parte della forza lavoro era già costitutivamente in pericolo per scelta aziendale, essendo formata, contro ogni indicazione normativa, da lavoratori con contratti a termine. Circa i 2/3 del totale sono infatti interinali e non dipendenti diretti della Rwm. Saranno questi i primi ad essere scaricati ora che quel commercio illegale è venuto finalmente a galla? Non lo sappiamo, ma è lecito aspettarselo. D’altra parte il Comitato, da sempre, si batte per la riconversione di tutti i posti di lavoro legati alla Rwm: stabili e precari, senza nessuna distinzione.

La sospensione annunciata dall’azienda, dunque, conforta ma non basta. Ci sono dei lavoratori incolpevoli, che sono stati, per anni, illusi dallo Stato che tutto fosse regolare, che ora potrebbero trovarsi sulla strada. C’è un territorio che soffre, da sempre, le conseguenze di un sistema industriale predatorio – minerario, metallurgico e bellico – che chiede rispetto e vuole un futuro per i propri figli. C’è una classe dirigente locale, politica e sindacale, che finora è rimasta sorda alle richieste di riconversione ed ha lavorato quasi esclusivamente in difesa dello status quo.

La crisi della Rwm, se crisi sarà, potrebbe essere il punto di svolta e il trampolino di lancio di uno sviluppo locale finalmente basato sulle potenzialità del territorio e non eterodiretto? Il Comitato Riconversione Rwm spera di sì. Mira ad un ripensamento generale dell’economia del Sulcis-Iglesiente che sia pacifico, duraturo, sostenibile per l’ambiente e non inquini le coscienze di un tessuto sociale ancora sostanzialmente sano e coeso.

Lo stesso Stato che ha avallato e coperto quei traffici mortiferi dovrebbe ora riparare con un grande progetto di investimenti sul Sulcis-Iglesiente. Non farlo significherebbe gettare nella disperazione un intero territorio, troppo provato per reggere un nuovo tradimento.

Già ora si percepiscono cattivi segnali e qualcuno insinua che il Comitato sarebbe responsabile dei licenziamenti. Per capire che si tratta di affermazioni senza fondamento basterebbe ragionare su chi detiene il potere di fermare una fabbrica. Basta leggere la mozione parlamentare. Basta informarsi sulle leggi vigenti.

Ma, nella disperazione, è difficile fermarsi a ragionare e qui ci siamo vicini. Qui siamo in guerra. Perché la guerra inizia dove si producono le armi. Per disinnescare i suoi perversi meccanismi può essere necessario affrontare sacrifici e pagare un prezzo, ma la comunità civile dovrebbe servire anche a condividere questi pesi e a fare in modo che non debbano essere sopportati dagli anelli più deboli della catena.

 

 

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