Bacon Morte & vita

Martirio o danza? O tutt’e due insieme? A ventiquattro anni, nel 1933 Francis Bacon dà un doppio titolo ad un lavoro inquietante. Tre figure schematiche, studio per una Crocifissione. Una sagoma centrale in ocra, altre due bianche, nuotanti nel vuoto: è una crocifissione ma pure una sorta di balletto di fantasmi, evocati da una linea sapiente che inscrive le forme nello spazio. Lo spettacolo è doloroso, la sua carica di verità, crudele. La vita come danza tragica, la morte come ultimo balletto. Bacon è un artista che non lascia tranquilli. Conficca i ritratti dentro parallepipedi sospesi nel buio, da cui emergono con tratti indefiniti, velati come una foto non riuscita. Il Ritratto d’uomo del ’53 esce dal nero con un sorriso che sa di ghigno, la Sfinge del ’54 collocata al di là di una parete vitrea di strisce blu bianche e nere fa intravedere la sagoma d’un uomo. Nulla è definito. Si brancola nel vuoto, nella scarsa luce della notte. Bacon tuttavia non è un istintivo. Lo si potrebbe dire un pittore filosofo: definizione che forse non gli sarebbe piaciuta, libero come voleva essere da qualsiasi schema. Eppure, disegnatore esperto e uomo colto, caricava le sue opere di una formidabile indagine sulla vita e sulla natura umana, preparandole con studi insistenti e con una osservazione acuta del contemporaneo male di vivere. Innovava, sapendo rimanere ancorato ad una tradizione espressionistica che aveva radici lontane: Bosch e Grünewald, ad esempio. Ma egli ne estremizza il parossismo. Le sue Teste d’uomo fissano una immagine mummificata, di colori sporchi: una atonia spirituale le pervade, anche quando sembrano irridere, sarcasticamente, il mondo e la vita. Penso alle variazioni – perché di ciò si tratta – sul ritratto di Innocenzo X del Velázquez, un’opera che lo ossessionava, con quello sguardo durissimo del pontefice, che non lascia scampo a chi l’osserva. Bacon lo rivisita: ora insistendo sulla macchia violacea dell’abito – il viola, colore della malinconia -, ora aprendogli la bocca in un riso beffardo, ora chiudendola in una analisi serrata, incupita; altre volte, come nel 1961, il volto è diventato un ammasso di carne sformata, e la tela è percossa da un rosso sangue violento. Bacon sente l’abisso oscuro del male che alligna nel mondo, la sua smania aggressiva, l’odore della lotta che stritola le carni. Anche le sue. Deforma le sue figure, infatti, fino a toglier loro individualità. Ma non è un gusto per un virtuosismo dell’orrido, adatto a far stupire o spaventare il pubblico. Bacon osserva con una lente particolare il suo – il nostro – tempo, e lo trova pervaso da un nichilismo angosciante. Egli vede nei volti sfigurati, nelle pose avvitate, nei colori acidi o squillanti il riflesso di un immenso nulla psicologico e spirituale. Le sue sono creature che vivono capovolte, con rapporti dominati spesso dall’aggressività. I Tre studi per il ritratto di George Dyer descrivono una vera contorsione dell’animo attraverso tre momenti del volto che guarda, si gira, osserva, fuori dall’obiettivo – si direbbe -, quasi a fuggire un’indagine troppo spietata. C’è infatti nell’arte di Bacon sempre una violenza dinamica che costringe le figure a non nascondersi, ma a presentarsi nella loro deformità interiore, colta con la velocità del fotogramma. Negli studi per il Ritratto di Henrietta Moraes (1969) i tre specchi deformanti in cui la donna viene colta, in sequenze cinematografiche al rallentatore, servono all’artista per superare il puro dato fisionomico – usa perciò la spatola, gli stracci bagnati – e arrivare all’interno dell’amica, conoscerla e farla conoscere. Si potrebbe dire che Bacon opera come l’ultimo Caravaggio: questi asciuga il colore per arrivare all’anima, egli toglie addirittura i tratti del volto, la somiglianza per giungere alla stessa meta. Un momento alto della sua opera è il Trittico del 1970. L’uomo è ritratto sull’altalena, nudo o vestito, fatto di colori accozzati plasticamente, sanguigni. Al centro, due figure lottano sotto una lampada oscillante al loro dinamismo violento, su una pedana blu elettrico. Per Bacon sembra che ogni rapporto, per sentirsi vivo, abbia bisogno della violenza che rende le membra maciullate. Ma non è così, forse, l’uomo il cui animo si trova distrutto dall’aver perso il centro della vita? In un altro Trittico, del 1977, è lui stesso, il pittore, a ritrarsi – tristissimo, perduto – fra due nature morte: la sua stanza e i suoi materiali da lavoro, elementi nel caos, dati a colpi di spatola o a grumi di colore, lanciati con forza nella tela. Una desolazione, ma insieme una spasmodica ricerca di vitalità. Un teatro di morte, sembrerebbe la sua opera. Un grido del nonsenso dell’esistere. Eppure, negli Studi per il ritratto di John Edwards del 1988, quattro anni prima della morte a ottantadue anni, Bacon apre uno spiraglio su di sé, brevissimo, vero. Il fondo si è fatto perlaceo, freddo. L’uomo, colto nel vortice di un moto impulsivo, siede nello spazio inconsistente. Non ha peso, il volto sembra sempre fuggire: verso dove? In quest’attimo sospeso dove la vita se ne va, Bacon pare identificarsi con quest’uomo, conosciuto e sconosciuto allo stesso tempo. Come lui, egli non sa verso quale meta andare, tanto il dubbio lo rende oscillante. In questa dolorosa incertezza è la luce, chiara, a dire l’ultima parola. Quella del dubbio, se la vita sia davvero tanto tragica. Nell’ultimo Studio sul corpo umano, del 1988, egli si ritrae ancora sopra delle membra in cammino, il volto ansioso, ma più riconoscibile. Che Bacon stesse ritrovando sé stesso?

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