Attendendo la Corte dell’Aia

Tra una settimana l’Alto tribunale internazionale si pronuncerà in merito all’eventuale obbligo cileno di negoziare un accesso sovrano al mare sul territorio conquistato nella Guerra del Pacifico, disputata più di 130 anni fa  
AP Photo/Luis Hidalgo

Tra una settimana la Corte internazionale dell’Aia dovrà dirimere l’annosa controversia tra Bolivia e Cile in merito all’accesso sovrano al mare. Più correttamente, la Corte si pronuncerà in merito all’eventuale obbligo del Cile di negoziare «in buona fede» detto accesso.

La questione è una ferita mai chiusa. O meglio, lo è per i settori politici altamente ideologizzati, sia da un lato che dall’altro che, a distanza di più di 130 anni leggono in modo diverso i fatti che condussero alla Guerra del Pacifico, iniziata nel 1879, e terminata con l’annessione militare di 120mila km2 nel Nord del Cile, sottratti a Perù e Bolivia, gli altri due belligeranti. La perdita della costa pacifica è motivo di frizioni diplomatiche ed anche di dissapori sul piano popolare.

A suo tempo, la Bolivia aveva presentato una causa presso la Corte dell’Aia asserendo che, nonostante l’esistenza di un trattato di pace siglato nel 1904, che sancisce l’attuale statu quo ed anche la riparazione materiale realizzata dal Cile per compensare la perdita territoriale, le autorità cilene avrebbero offerto – e più volte – di negoziare un accesso al mare. La sostanza della sua petizione è che il governo cileno sia obbligato a far fede a tale impegno.

La parte cilena nega l’esistenza di tale diritto ed asserisce che i rapporti territoriali tra i due Stati sono stati definiti dal trattato del 1904, nel quale le parti riconoscono che non esistono pretese di questo tipo, né ci sono state le iniziative di cui fa menzione la parte boliviana.

In questi giorni sono apparse le prime dichiarazioni pubbliche in vista della sentenza prevista per il primo ottobre. In un suo messaggio, per una volta conciliatore, il presidente boliviano Evo Morales ha invitato ad accogliere con «serenità» la sentenza. «Invito al fratello presidente del Cile, Sebastián Piñera, a trovare insieme formule di intesa per chiudere le ferite aperte più di cento anni fa».

L’intesa, secondo Morales, deve basarsi nell’adempimento del diritto internazionale e nei valori della «giustizia, della dignità e della buona fede». Purtroppo, questo tono conciliatore non è abituale nel mandatario boliviano, pertanto il suo invito è stato letto come una preparazione dell’opinione pubblica boliviana a una sentenza sfavorevole. A sua volta, il presidente Piñera ha ribadito ulteriormente che le questioni territoriali con la Bolivia sono già state sancite definitivamente nel 1904.

Dopodiché, in questi giorni, sono seguite le schermaglie mediatiche dei rispettivi ministeri degli Esteri che, con toni poco amichevoli si sono riferiti o all’eventuale nervosismo della parte boliviana di fronte alla eventualità di perdere il litigio o hanno considerato come «provocazioni» tale lettura da parte cilena.

In realtà, da una parte è difficile considerare la disponibilità al dialogo quando viene iniziata una causa giudiziale (Bolivia), dall’altra è difficile non ricorrere a tale via se la controparte basa le sue risposte esclusivamente sul piano giuridico (Cile) di fronte a una questione eminentemente politica.

Con i due governi concentrati nella disputa giuridica, ciò di cui meno si parla è di un dialogo politico che possa cogliere le potenzialità e le complementarietà dei due Paesi, seguendo la realtà globalizzata del secolo XXI più che gli schemi del secolo XIX.

Siamo di fronte a un classico labirinto. E – lo insegnava lo scrittore Leopoldo Marechal –, l’unica maniera di venirne fuori non è cercando una uscita che non esiste, ma dall’alto. In questo caso, “l’alto” è la politica.

 

 

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