Astensionismo, possiamo invertire la tendenza

Il distacco dalla partecipazione politica cresce in una società liquida senza più legami e appartenenze. I partiti sembrano lamentarsi dell’astensione al voto ma non fanno molto per dare credibilità ad un impegno serio per il bene comune che, invece, alcuni amministratori locali testimoniano con il loro impegno quotidiano. Occorre rinnovare il rapporto tra chi si candida e tutti noi elettori e non ricordarci delle elezioni solo ogni 5 anni. Città Nuova dà spazio a riflessioni e proposte da parte dei propri lettori, nell’ottica di un dialogo aperto e costruttivo. Vedi il Focus "Dibattito verso le elezioni politiche".)
Elezioni rischio astensionismo Foto LaPresse - Ermes Beltrami

Astensionismo è un fenomeno che sta aumentando ma di cui pochi parlano. Cerchiamo di approfondire la questione a partire da alcuni dati: alle ultime elezioni comunali di ottobre 2021 siamo passati dal 52% del primo turno a quasi il 44% di affluenza del secondo.

 

Ma andiamo un po’ alle origini: partiamo dalle elezioni nazionali del 1979 dove più del 90% degli aventi diritto si è recato alle urne. Da allora, sia pur in maniera diversa c’è stato un aumento progressivo dell’astensionismo fino ad arrivare a quasi il 20% nel 2008.  Anche se diverso dalle elezioni nazionali il trend di crescita dell’astensionismo è continuato fino ai giorni nostri e se sarà confermato alle elezioni di settembre l’astensione sarà intorno al 40% il che significa che il partito di maggioranza è un altro: gli astenuti.

La preoccupazione per l’alto astensionismo è espressa da tutti i partiti politici. Ecco alcune affermazioni dopo le amministrative dello scorso anno: «Dobbiamo lavorare perché si superi e si riduca l’astensionismo». «Il vero protagonista di questa tornata di ballottaggi è in modo drammatico l’astensionismo. Il mio partito ha il dovere di dare una risposta a chi non crede più nella politica come soluzione». «Se oggi è andato a votare una minoranza del Paese ed ha vinto l’astensionismo vuol dire che la politica deve riflettere perché forse ha fatto degli errori», è il parere di un ministro dell’ultimo governo Draghi.

Parole comprensibili ma poi nei fatti c’è stata una inversione di tendenza? La politica ha saputo parlare alla gente soprattutto verso le nuove generazioni? Con questa legge elettorale non chiara ai più e con il fatto di togliere le preferenze, chi comanda sono ancora le segreterie dei partiti e non l’elettore. Ma veramente ai partiti interessa che ci sia un’alta affluenza alle urne?

Domanda provocatoria ma  espressa  bene da Eugenio Mazzarella su Avvenire: «perché con la metà dei voti assoluti di trent’anni fa, per il gioco delle percentuali, paghi uno e prendi due, ottiene lo stesso numero di seggi, per altro predeterminando con i listini l’eleggibilità dei canditati: paradossalmente sono i capi dei partiti politici a esprimere chi preferiscono sia eletto in base alle percentuali raggiunte; la preferenza è loro, non dell’elettore».

Una recente analisi di Tecnè Italia della sempre più massiccia astensione elettorale, e della sua struttura interna, ha confermato un dato ormai acclarato: la diserzione dal voto dei ceti più disagiati, sempre più convinti che la politica non li rappresenti e, quindi, dell’inutilità della partecipazione elettorale. «Le classi più disagiate cercano risposte che non trovano in nessun partito e percepiscono che spesso il loro voto è inutile. Dunque, se ne stanno a casa», è l’efficace sintesi dell’Istituto di ricerche. In sostanza, dal campione esaminato (le ultime amministrative), emerge che solo il 28% degli elettori a basso reddito è andato al seggio. Le percentuali salgono per la classe a reddito medio (63%) e soprattutto per i redditi alti (79%).

Pur nel limite delle righe di questo contributo provo a delineare alcune cause.

Qualche anno fa abbiamo organizzato una tavola rotonda con i giovani di tutti i partiti della mia città dal titolo: “Se tu fossi sindaco cosa faresti?” Abbiamo preparato insieme il percorso con toni anche accesi per la contrapposizione che li distingueva ma giungendo sempre ad un dialogo rispettoso e costruttivo. La sera del convegno alla domanda di una persona del pubblico su come fosse il rapporto con il proprio partito tutti i giovani pur con sfumature diverse hanno affermato: «si belle parole e tanti progetti in campagna elettorale ma poi comandano sempre loro». Tutti unanimi!

Forse non sono cambiate tanto le cose eppure basterebbe più che fare un passo indietro fare un passo a lato a dare ai giovani la responsabilità delle loro idee.

Mettiamo insieme poi la frammentazione dei partiti negli ultimi 5 anni, tutti piccoli cespugli che se ne vanno per esprimere un’idea diversa anziché cercare il dialogo. Questo, se cercato e approfondito, alla fine unisce sempre non in un compromesso ma in una condivisione comune.

Poi mettiamo il numero di parlamentari che hanno cambiato casacca nell’ultima legislatura: tutto questo non da credibilità e affidabilità alla politica.

Eppure ci sono buone pratiche di tanti amministratori come servizio verso la comunità. Ma mi sembra che spesso parlano solo i leader e tante buone pratiche non vengono in luce.

I giovani si convincono con una vera testimonianza, con la vita non con le promesse impossibili o sparate elettorali per far contenta la pancia.

Hanno sete di cose autentiche e sincere non certo come sento in questi giorni con la denigrazione continua dell’avversario. Dobbiamo ritornare a far innamorare i giovani della politica! La strada prima è sempre il dialogo, lo sottolinea bene Daniela Ropelato su Città Nuova: «accettare di confrontare un’idea, la propria idea, con la realtà, con le domande di oggi, mettendosi in discussione».

Altro aspetto determinante è la mancanza di riferimento per le classi sociali. Nei primi decenni del dopoguerra i riferimenti ai partiti erano chiari sia per gli operai, per la classe media che per i redditi alti. Questo si accompagnava ad una identificazione reale del partito con la propria gente, e il partito era in mezzo alla gente.

Oggi non è più così: viviamo in una società liquida, per richiamare una definizione di Zygmunt Bauman, in cui le relazioni sociali sono segnate da caratteristiche che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente in maniera incerta e volatile.  Tutto ciò che prima era considerato solido, sicuro (l’idea di Dio, lo Stato, la propria identità, il posto di lavoro, il partito) è venuto meno. L’unica certezza è diventata l’incertezza. Anche il riferimento certo ad un partito è saltato.

La strada è rinnovare il rapporto tra chi si candida e tutti noi elettori e non ricordarci delle elezioni solo ogni 5 anni. Ricostruire un percorso insieme verso il voto e poi continuare in maniera reciproca la condivisione dei passi e delle scelte in modo che chi è eletto non si senta solo ma accompagnato dai suoi elettori e chi ha eletto possa condividere scelte e difficoltà con la possibilità di poter anche intervenire nell’iter parlamentare. Utopia? E’ la società civile da basso che deve prendere l’iniziativa. Anche la cittadinanza attiva è linfa viva per la democrazia.

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