Arte e vita allo specchio nell’Amleto di Korsunovas

Alla Biennale Teatro di Venezia, lo spettacolo del 2008 che ha portato alla ribalta internazionale il regista lituano.Nell’Amleto egli ha colto il paradigma tragico per un serrato corpo a corpo con la realtà.
teatro

È lo specchio, simbolo del doppio e riflesso della coscienza, che permette di scrutare il fondo dell'anima, l'elemento scenico predominante dell'"Hamlet" di Oskaras Korsunovas. Una fila di tavoli-specchio da camerini di teatro dove gli attori si preparano, truccandosi, a divenire personaggi. Ciascuno, specchiandosi, domanda a sé stesso: "Chi sei tu?". Un interrogativo crescente che diventa dramma della coscienza. "Siate onesti, non mentite a voi stessi, recitate come recitereste davanti a uno specchio", farà dire Shakespeare ad Amleto. Da qui l'incipit tradotto in messinscena. Quelle strutture modulari assemblate a formare un monolite o disseminate sul palcoscenico, suggeriscono, di volta in volta, gli spalti del castello di Elsinore, l'interno della reggia, la camera da letto della regina incestuosa: un caleidoscopico avvicendarsi di fughe prospettiche e di ribaltamenti di punti di vista. E spazio interiore. Il regista lituano (classe 1969) destruttura, frattura, sdoppia, ricrea il grande classico immergendoci in un mondo onirico e violento, annebbiando la vista con fumi e squarci di luce al neon, spezzando il silenzio con suoni metallici, ribaltando i piani degli eventi con immagini di forte impatto visivo. Ed è magistrale l'inventiva di cui si nutre lo spettacolo. Come l'aver affidato allo stesso attore, in un gioco speculare, il ruolo del re e quello del fratello usurpatore. Questi, da spettro, apparirà disteso su di un piano-bara simile ad un santo esposto in una teca. Il celebre monologo "essere o non essere" sarà recitato da Amleto due volte, anche poco prima della sua morte per interrogarsi sullo stato del teatro; e il finale, privato di calici e di spade, vedrà Amleto e Claudio scrutarsi e uccidersi in un abbraccio sporco di sangue. C'è poi un gigantesco topo bianco che si aggira sulla scena, allusione figurata della "trappola per topi" cui accenna Amleto rivolgendosi ai guitti ingaggiati per la recita che svelerà il complotto; e un clown con la pallina rossa sul naso, vestito di nero come un uccello del malaugurio, che silenzioso scruta senza essere visto. È il fool shakespeariano, presente in altre opere, portavoce delle verità, che rimarca quella follia e quella ricerca della verità che anima il triste principe di Danimarca. Gestualità viscerale e rabbiosa, recitazione prepotentemente fisica sono la cifra stilistica degli interpreti dell'OKT/Vilnius City Theatre, che danno corpo sanguigno alla parola. Quella parola del testo, sviscerata e vivisezionata con profondità (in un lavoro durato due anni) per essere restituita in tutta la sua potenza visionaria. Che farà rimbalzare quella domanda iniziale attraverso la quale il regista si interroga su sé stesso, sul senso del teatro, sul ruolo dell'artista e sull'identità delle generazioni di oggi. E se, come consiglierà Polonio al figlio Laerte, "L'importante è non mentire a se stessi", lo struccarsi finale degli attori davanti agli specchi, ci ricorda che siamo dentro la finzione. Fuori da quello spazio c'è la vita reale: un mondo troppo scaltro, calcolatore, abbrutito, dal quale difenderci. Con l'arma dell'onestà della propria coscienza.

 

“Hamlet”, di William Shakespeare, regia Oskaras Koršunovas, scene Oskaras Koršunovas e Agne Kuzmickaite, costumi Agne Kuzmickaite, musiche Antanas Jasenka, luci Eugenijus Sabaliauskas, suono Ignas Juzokas. Al Teatro Goldoni di Venezia, per la Biennale Teatro, il 2 agosto.

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