Alle radici di ogni totalitarismo

Aveva 22 anni, Elias. Giovane intellettuale, era immerso fino al collo in quello scorcio di secolo percosso da grandi ideologie e da tragiche guerre. La Prima Guerra mondiale aveva seminato morte e distruzione in tanta parte d’Europa, la fiaccola del comunismo ardeva ormai nell’Unione Sovietica e il vento spingeva il suo fumo per chiamare all’azione i proletari di tutto il mondo. Tra delusioni e recessioni economiche altri totalitarismi facevano capolino: il fascismo s’era imposto in Spagna e Italia; nel mondo tedesco già si preannunciavano i sibili del nazismo. Era il 15 luglio del 1927, per la precisione. Un giorno che non si cancellerà più dalla memoria di Elias. Uno fra i tanti giovani di Vienna, quella mattina aveva aderito ad una manifestazione operaia. S’era unito alla folla baldanzosa e concitata, che urlava rabbia e slogan, e alzava i pugni al cielo, dirigendosi verso il Palazzo di Giustizia. Poi, d’un tratto, l’esaltazione della folla di- ventò furibonda: qualcuno appiccò fuoco al Palazzo di giustizia che cominciò ad essere divorato dalle fiamme. La polizia sparò. Gli urli a poco a poco lasciarono posto al sibilo dei proiettili, alle urla dei feriti. Sullo sfondo, il fumo nero del rogo. Tanti, come il giovane Elias, fuggivano in preda al panico, sorpresi per l’accaduto. Quella giornata, iniziata gloriosamente, finiva nella paura: intrufolandosi in un vicolo, trasalendo al minimo incontro. Ma soprattutto, il giovane Elias fu colpito dal meccanismo che aveva trasformato un insieme di individui radunati per una manifestazione, in una massa, di cui anch’egli era stato parte e aveva sperimentato le dinamiche. Parlerà di quel giorno, molti anni dopo, in una sua autobiografia: Sono passati cinquantatré anni, eppure sento ancora nelle ossa la febbre di quel giorno… Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva. (…) nulla è più enigmatico e incomprensibile della massa. Se l’avessi capita sino in fondo, non avrei inseguito per più di trent’anni il progetto di decifrarla e di descriverla, come altri fenomeni umani, nel modo più completo. Elias Canetti era nato nel 1905 in Bulgaria, da una famiglia ebrea sefardita, cioè di origine spagnola. Intellettuale cosmopolita, dopo quel giorno dedicò più di trent’anni della sua vita a studiare il fenomeno della massa. E intravide in questo fenomeno, nell’individuo che si trasforma in massa, le radici spesso subdole e invisibili d’ogni totalitarismo. Per analizzare in modo completo il fenomeno della massa, Canetti, da intellettuale scrupoloso qual era s’avventurò nelle più disparate scienze e discipline: dalla filosofia alla mitologia, dalla sociologia alla religione, dall’antropologia alla zoologia. Le sue conclusioni le diede alle stampe nelle suggestive e originali pagine del monumentale saggio Massa e potere (1960). In esso Canetti vede nella massa un fenomeno a sé, regolato da leggi proprie e diverse da quelle che regolano la vita del singolo individuo. Ad esempio, un insieme di lavoratori d’una fabbrica si scopre massa, non tanto quanto lavora, ma quando, tramite lo sciopero, interrompe l’attività produttiva. Così spiega Canetti: Molte persone riunite insieme vogliono non fare più ciò che fino a quel momento avevano fatto come singoli. Nell’esercizio della attività produttiva, l’eguaglianza dei lavoratori non è sufficiente per determinare la formazione della massa. È l’interruzione di questo esercizio, il rifiuto di continuare a lavorare che fa scattare questo processo. Quello della fermata è un grande momento, celebrato nelle canzoni dei lavoratori. Queste mani che ricadono influenzano per contagio altre mani. Chi conosce quasi istintivamente le leggi che regolano la vita della massa, che sa come muovere le corde impercettibili che la fanno sussultare, che sa come esaltarla e chiedere ad essa qualsiasi sacrificio, è il dittatore. Gli impulsi dittatoriali sono presenti in forme più o meno accentuate, e molto varie, in ciascuno di noi e nella società. Ma nei potenti, nei veri Dittatori con la D maiusco- la, raggiungono la massima espressione, spesso causando tragedie e atti disumani. Canetti, nel suo studio, sottolinea che questi impulsi dittatoriali hanno manifestazioni assai simili alle psicopatie. E si possono chiarire studiando in particolare la paranoia, poiché nei malati psichici, come nei potenti, si allentano i freni inibitori. Gli esempi più tragici del potente paranoico, e dei processi del potere che ha messo in moto per soggiogare la vita e la coscienza di milioni di persone, sono quelli di Stalin e di Hitler. Canetti, di origine ebrea, aveva sperimentato sulla sua pelle la tragedia del nazismo. Sebbene nel suo saggio non parli direttamente di Hitler, egli affermò più volte che, in realtà, esso aveva principalmente lo scopo di fare una minuziosa ricerca sulle radici del nazismo. Studiando i caratteri della figura del Dittatore, Canetti giunge alla conclusione che egli, ossessionato dal potere, arriva infine a concepire solamente la distruzione di ciò che gli è attorno, anche dei fedeli collaboratori. Queste righe sono di una profondità agghiacciante: Che egli [il Dittatore] sia o no effettivamente messo in pericolo da nemici, sempre proverà la sensazione d’essere minacciato. La minaccia più pericolosa procede dalla sua stessa gente, da coloro che egli comanda continuamente, che gli sono vicinissimi, che lo conoscono bene. Il mezzo per liberarsi, cui egli ricorre non senza esitazioni, pur non rinunciandovi mai, è l’ordine subitaneo di una morte di massa. Egli dà inizio a una guerra e manda i suoi là dove devono uccidere. Molti di loro, d’altronde, potranno morire anch’essi. Non gli rincrescerà. Comunque si atteggi esternamente, c’è in lui un profondo e segreto bisogno che anche le fila della sua stessa gente si diradino. Affinché egli sia liberato dall’angoscia del comando, è necessario che muoiano anche molti di coloro che combattono per lui. La selva della sua angoscia è divenuta troppo fitta: egli anela a che si diradi. Se ha esitato, troppo, non vede più chiaro e può gravemente danneggiare la sua posizione. La sua angoscia del comando assume allora dimensioni che portano alla catastrofe. Ma prima che la catastrofe abbia raggiunto lui, il suo corpo – che per lui rappresenta il mondo – prima di ciò, egli avrà portato alla rovina innumerevoli altri. L’analisi di Canetti è dolorosa: sull’individuo che si annulla nella massa, regna la tenebrosa e solitaria figura del tiranno. Gengis Kan, Hitler, Stalin sono esempi-limite del potere: le masse, sono i mucchi di cadaveri che fanno da tragico piedistallo alla loro nevrotica ambizione. Ma la visione di Canetti ha anche un pregio indiscutibile: quello di scuoterci, di farci prendere atto delle piccole o grandi forme di totalitarismo di cui, in varia misura, siamo partecipi nella nostra vita quotidiana. Magari come piccoli dittatori, che certamente non s’avvicinano alla macabra celebrità dei grandi Dittatori. Ma sempre, piccoli dittatori. Oppure come individui che per pigrizia intellettuale o per comodità o per ottenere una certa protezione, accettano troppo facilmente di rinunciare alla propria individualità per trasformarsi volontariamente, se non entusiasticamente, in massa. Paradossalmente, al termine del suo studio che sembra suggellare l’eclisse definitiva dell’individuo, Canetti riafferma, senza alcuna retorica, la propria grande fede nella persona umana: Gli avvenimenti del nostro secolo sembrano indicare tuttavia che nella coscienza dell’uomo non è cambiato nulla. Per via indiretta, passando dalla propria anima, l’uomo stesso si è commosso sulla sua vita terrena. Il desiderio di indistruttibilità gli è divenuto legittimo. Ognuno è ai propri stessi occhi degno oggetto di lamento. Ognuno è ostinatamente persuaso di non dover morire. Su questo punto l’eredità del cristianesimo – e in termini alquanto diversi anche del buddhismo – è particolarmente durevole.

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