Alle radici dell’etica

Alcuni suoi colleghi hanno redatto la “Carta della professione medica”, quasi un aggiornamento dell’antico “Giuramento di Ippocrate”. Era necessaria questa nuova formulazione e perché? “In realtà vari codici deontologici o descrizioni di regole morali che guidano la professione medica sono stati redatti nel tempo dalle associazioni mediche nei diversi contesti locali e nazionali. Vedrei perciò la “Carta della professione medica” come un tentativo di sintesi e di unificazioni di quei numerosi codici. È ovvio che Ippocrate ha dettato i suoi indirizzi etici in un contesto culturale diverso, ma le radici dell’etica non cambiano. Detto questo, va aggiunto che è stato notevole lo sforzo di riassumere nelle dieci proposizioni della “Carta” alcuni punti di riferimento abbastanza aggiornati. Dal mio punto di vista però, il rapporto fra politiche sanitarie e servizi sanitari va deteriorandosi nei vari contesti, speriamo solo che si tratti di una crisi di crescita”. Non c’è dubbio che la professione medica sia mutata negli ultimi anni seguendo l’evoluzione stessa della società. Quali sono secondo lei gli aspetti positivi e quali quelli negativi di questo cambiamento? Dove bisogna intervenire? “Fra gli aspetti positivi anzitutto due: l’avanzamento delle conoscenze nell’ambito della ricerca biomedica e il progresso tecnologico. Avvenimenti che hanno consentito successi crescenti nella diagnostica precoce e nella terapia. Di pari passo però sono cresciuti i costi che hanno messo in crisi il Welfare State, ponendo ai diversi Servizi sanitari domande critiche circa la difficile convivenza fra etica ed economia in sanità. In altre parole la crescita dei costi in sanità pone limiti all’erogazione dei servizi pubblici. “Ma d’altra parte è cresciuta anche la differenza fra i costi e i redditi medi perciò sempre meno persone possono permettersi la disponibilità di accedere ai servizi a pagamento. In ogni modo l’aspetto negativo più importante è secondo il mio parere quello della prevenzione delle malattie dove c’è tutto o quasi tutto da fare”. Come per le altre professioni non è sempre facile restare coerenti a quei principi ideali che hanno orientato la scelta lavorativa. Si è trovato di fronte a questa difficoltà e come l’ha superata? “Si dice comunemente che la professione medica è una missione di poco inferiore a quella del sacerdote. A parte l’alone di romanticismo che sottolinea così tanto questo particolare servizio, non v’è dubbio che per qualsiasi persona, credente o non credente, il modello di riferimento possa essere Gesù, che durante la sua vita pubblica ha curato e guarito centinaia di malati. Nella mia esperienza i momenti più difficili non sono scaturiti dalle attività di cura con i malati, che in ogni modo dovevo ripropormi sempre di mettere al primo posto, ma dai rapporti con i colleghi e con le autorità sanitarie prevalentemente quelle d’estrazione politica. Le mie armi vincenti? Quelle d’amare per primo e amare il nemico. Ciò mi ha permesso, anche nei momenti più duri, di salvare sempre la relazionalità e comunque di evitare ricadute negative nei rapporti verso i malati”. Veniamo all’eutanasia. È del medico curare e se possibile guarire le persone. Un dottore che pratichi quella che chiamiamo “dolce morte” non ha forse “cambiato” professione? Perché secondo lei un Paese, sceglie di legalizzare l’eutanasia? “Per quanto riguarda un giudizio sull’eutanasia bisogna ritornare alle radici dell’etica, ma di questa non sono responsabili solo i medici, in prima persona vi sono anche i politici, i giuristi, s’includano a buona ragione i filosofi ma anche i teologiresponsabili di dover contribuire a trovare strade percorribili all’applicazione del diritto. “L’eutanasia per il medico e per i paesi che l’approvano è l’espressione più autentica di un disvalore della post-modernità: il consumismo, perché “il regno del denaro è cannibalico, saturnino, divora la parte di civiltà che ha appena creato” (Giorgio Bocca. Il dio denaro. Mondadori, Milano, 2001). Per il malato è l’espressione di uno stato depressivo che può essere curato. “Personalmente ho seguito e continuo a seguire malati nella fase terminale della loro vita, cercando d’essere loro vicino, di farmi carico dei loro momenti di sconforto e, a volte, delle loro disperazioni ma anche in queste circostanze sono loro a farmi un dono. Facendo loro giungere un poco d’amore neanche si accorgono più della gravità della malattia. Ricordo di una persona gravissima, ero seduto accanto al suo letto, voleva solo che gli stringessi la mano, non parole. Continuava ad avere gli occhi socchiusi ma sul volto vedevo pian piano allentarsi la tensione, la pace coinvolgerci”

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