Alle Olimpiadi anche la squadra dei Rifugiati

29 atleti, originari di dieci diversi Paesi, gareggeranno tutti sotto la stessa bandiera. Si tratta della “squadra dei rifugiati”, per la seconda volta alle Olimpiadi estive. Guidati, nel tiro a segno, da un campione d’eccezione…

Il programma della seconda giornata di gare a Tokyo 2020 non era particolarmente ricco. Il “menù olimpico” odierno, infatti, prevedeva solo la disputa dei primi otto incontri del torneo di calcio maschile (con l’Italia purtroppo assente), e la seconda giornata del torneo di softball in cui le nostre rappresentanti sono state impegnate contro l’Australia (1-0 il risultato finale a favore delle giocatrici aussie, australiane). Questo perché il via ufficiale dei Giochi ci sarà solo domani, con gli occhi del pianeta che saranno puntati sulla spettacolare cerimonia di apertura la cui diretta tv sarà visibile in chiaro, su Rai 2, a partire dalle 13. Ormai rimane solo un giorno e l’attesa sarà davvero finita. Parliamo dell’attesa di tanti atleti che da anni si allenano per dare il meglio di sé stessi proprio in occasione dell’evento sportivo più importante del pianeta: i Giochi olimpici, appunto.

E anche quest’anno, come era già avvenuto per l’edizione di Rio del 2016, questa “trepidante” attesa riguarda anche un team davvero speciale, quello dei “rifugiati”, squadra fortemente voluta dall’attuale presidente del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), il tedesco Thomas Bach. Si tratta questa volta di ventinove atleti (cinque anni fa, a Rio, furono dieci), fuggiti per diversi motivi dai loro Paesi, e che hanno trovato accoglienza in altre Nazioni che li hanno ospitati, dando loro una “seconda possibilità”. Sono stati scelti tra diversi candidati, «per dare un segnale di speranza a tutti i rifugiati del mondo», ha spiegato lo stesso Bach. Rifugiati, sfollati e richiedenti asilo politico che cercano con tutte le loro forse di praticare dello sport. Nonostante tante difficoltà da superare.

Yusra Mardini, la farfalla arrivata dalla Siria
Tra di loro ci sarà anche Yusra Mardini, che faceva parte di questo particolare team già nel 2016, e sulla cui storia, che ha davvero dell’incredibile, è già stato scritto un libro (“Butterfly”), mentre a breve è attesa anche l’uscita di un film di produzione Netflix intitolato “The swimmers”. Prima della guerra in Siria, il suo Paese d’origine, questa ragazza rappresentava la sua nazione nelle competizioni internazionali di nuoto. Costretta a fuggire insieme alla sorella da Damasco, a causa della guerra, il gommone su cui viaggiava nel tentativo di raggiungere l’isola di Lesbo ruppe il motore. Yusra non si perse d’animo, e insieme alla sorella e ad un’altra ragazza trascinò il gommone (in tutto a bordo c’erano venti persone), nuotando per circa 5 chilometri nel Mar Egeo per raggiungere la più vicina costa greca. Riuscendo, così, a mettere tutti in salvo.

«A bordo c’erano persone che non sapevano nuotare, sarebbe stato terribile se alcuni di loro fossero annegati». Poi, raggiunta la costa, viaggiò a piedi insieme alla sua famiglia attraverso la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria prima di raggiungere la Germania (era il settembre del 2015). Dal suo arrivo a Berlino Yusra ha cominciato ad allenarsi presso un club natatorio locale, e dopo l’esperienza di cinque anni fa la rivedremo già sabato prossimo nei 100 farfalla, la sua gara preferita. «A Tokyo voglio rappresentare tutti i profughi per dimostrare ancora che dopo il dolore, dopo la tempesta, possono arrivare giorni di calma. Voglio ispirarli a fare qualcosa di buono nella vita».

Masomah Ali Zada, la piccola regina di Kabul
Masomah Ali Zada, invece, è una ragazza cresciuta in un Paese in cui le ragazze non sono certo incoraggiate ad andare in bicicletta. Tutt’altro. Parliamo dell’Afghanistan, nazione da cui Masomah è stata costretta a fuggire insieme ad altre giovani per cercare di realizzare il desiderio di diventare una ciclista. Anche la sua storia, così come quella della Mardini, è diventata un libro dal titolo “La piccola regina di Kabul”.

«Ho fatto di tutto per arrivare qui», ha raccontato questa giovane atleta dopo aver saputo di essere entrata a far parte della selezione olimpica dei rifugiati, «voglio che sempre più donne, anche attraverso il mio esempio, possano essere coinvolte nel ciclismo, e lo possano fare anche in Paesi come il mio». Dopo aver trascorso in esilio in Iran la sua infanzia, periodo durante il quale il padre le ha insegnato ad andare in bicicletta, Masomah ha fatto ritorno a casa a metà degli anni 2000. Si distingueva nel Taekwondo, ma aveva una smisurata passione per la bici.

Una passione così forte che, una volta cresciuta, decise insieme ad altre ragazze appassionate delle due ruote di sfidare le tradizioni di un Paese in cui ancora oggi persistono forti barriere ad una vera uguaglianza di diritti tra uomini e donne. «Hanno tentato di fermarci in tutti i modi, con minacce, insulti, lanciandoci delle pietre, ma non c’è niente di sbagliato nel vedere delle donne che vanno in bicicletta». Così, a soli 19 anni, si è trasferita insieme alla sorella minore Zhara in Francia. Qui si è messa in evidenza, ha potuto allenarsi grazie ad una borsa di studio, fino a coronare la realizzazione del sogno di poter partecipare ad una Olimpiade. «Se l’ha accettato mio padre perché non possono accettarlo altri padri? Noi siamo una nuova generazione, dobbiamo consentire alle donne di progredire, di vivere i propri sogni fino in fondo». Masomah sarà in gara nella cronometro femminile, in programma mercoledì 28 luglio, con l’obiettivo di ben figurare e di mandare un messaggio importante all’intera comunità delle donne afgane, e non solo, perché in futuro possano avere più libertà nelle loro scelte.

Luna Solomon, Niccolò Campriani e l’importanza di donare per essere davvero felici
Nelle prossime due settimane, i ragazzi e le ragazze di questa squadra così particolare gareggeranno nel nuoto e nel ciclismo, le discipline di Yusra Mardini e Masomah Ali Zada, ma li vedremo competere anche in atletica, badminton, canoa, judo, karate, lotta, pugilato, sollevamento pesi, taekwondo e… tiro a segno. Nella prova di carabina ad aria compressa da 10 metri femminile, in programma domenica 25 luglio, ci sarà infatti anche Luna Solomon, atleta di origini eritree che vive ormai da tempo in svizzera, dove è allenata da un maestro davvero speciale. Parliamo dell’azzurro Niccolò Campriani, che molti ricorderanno vincitore di ben due medaglie d’oro ai Giochi di Rio del 2016. Fiorentino, vero e proprio talento delle gare con la carabina, l’ex atleta italiano si è ritirato giovanissimo dalle competizioni nel 2017, quando non aveva ancora compiuto trent’anni. E, allora, non sapeva cosa il destino aveva in serbo per lui. A Rio Niccolò, in quella che sarebbe stata la sua ultima gara, vinse la medaglia d’oro nella carabina 50 metri dopo un ultimo tiro “sbagliato” del suo principale avversario, il russo Sergej Kamenskij.

«Ero impegnato in un confronto serrato con l’atleta russo. All’ultimo colpo ero indietro di alcuni decimi di punto, e ho tirato prima del mio avversario. Un colpo pessimo (9.2, un colpo di gran lunga inferiore a quello che ragionevolmente sarebbe servito per vincere, ndr). Quindi era finita, giusto? Ero già indietro. Ho tirato un colpo sbagliato, era finita. Per otto secondi ero l’argento poi, dopo il suo colpo (“sbagliato”), ero il nuovo campione olimpico. Ho fatto davvero fatica ad accettarlo, ero così felice della medaglia d’argento che vincere l’oro in quel modo … non so, non sentivo di meritarlo. Per “giustificare” questo risultato, ho deciso così di donare la differenza tra il premio per il primo e quello per il secondo posto all’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati».

Niccolò, a seguito di questa donazione, viene quindi invitato a visitare il campo profughi di Meheba, in Zambia. «È stata un’esperienza incredibile, una cosa che non dimenticherò mai, e così è nato questo progetto». Progetto finanziato con donazioni, che viene ben illustrato in una serie di puntate disponibili su Olympic Channel, un servizio di internet TV fornito dal Comitato Olimpico Internazionale.

«A marzo del 2019 abbiamo organizzato un incontro con 10 rifugiati. Nessuno si era mai esercitato nel tiro a segno, e non si conoscevano tra di loro. È stato il giorno più bello della mia vita». Inizia così il cammino verso Tokyo, e Niccolò si butta a capofitto in un’impresa che sembra disperata: portare qualcuno di questi ragazzi ad ottenere, in pochissimo tempo, un minimo di prestazione sufficiente a renderli “eleggibili” per i Giochi. Alla fine vengono selezionati tre ragazzi, e tra questi c’è anche Luna, che nel frattempo, proprio durante la preparazione per le Olimpiadi, diventa mamma.

Il rinvio al 2021 delle Olimpiadi, causa pandemia, le permette però di tornare ad allenarsi, ed alla fine viene nominata tra i 29 atleti del team dei rifugiati. Per la sua gioia, e per quella del suo allenatore. «Voglio lanciare un messaggio. La carriera di un atleta non finisce con l’ultimo colpo o l’ultimo salto: dipende dalle loro scelte di vita. Alcuni dopo l’abbandono delle gare devono ritrovare un equilibrio. Personalmente, dare indietro quanto ho ricevuto dallo sport mi ha fatto bene per reintegrarmi lentamente nella società». Così, anche grazie al sostegno di persone speciali come Niccolò, grazie all’aiuto di un Paese che li ha accolti e di persone che hanno creduto in loro, atleti come Yusra, Masomah e Luna a Tokyo faranno parte di una squadra… davvero un po’ particolare!

 

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