Alberto Manzi: coltivare insieme la speranza

C’è stato un tempo, quarant’anni fa, in cui Alberto Manzi era fra i personaggi più noti d’Italia come conduttore di Non è mai troppo tardi, il programma tv che ha segnato una tappa importante della lotta all’analfabetismo da noi ed è stato imitato in 72 altri paesi. L’ancor giovane maestro romano (era nato nel 1924) aveva trovato il proprio campo di ricerca in una scuola rivolta soprattutto ai soggetti più difficili perché rimasti lontani da essa o da essa rifiutati, riuscendo per primo ad animare un’aula scolastica virtuale per un vasto pubblico, con uno stile didattico e comunicativo di rara efficacia. Così lo ricorda Virgilio, suo collega e amico d’infanzia: Nel ’46, appena ventiduenne, venne chiamato ad insegnare ai minori dell’istituto di rieducazione e pena Aristide Gabelli, trasferiti presso l’antico carcere di San Michele dopo il bombardamento del quartiere San Lorenzo. Erano 94 alunni dai 9 ai 17 anni, alcuni soggetti piuttosto turbolenti, e la prima volta che si presentò a far lezione, per farsi rispettare, dovette fare a cazzotti col loro capo. Alberto era fatto così: era un tipo sanguigno, pieno di inventiva e di vitalità, generosissimo e con la passione per gli ultimi. Con quei suoi metodi a volte poco ortodossi riuscì a conquistarsi quei ragazzi difficili, che presero a volergli un bene dell’anima. Assieme a loro fondò anche un giornalino, sul primo numero del quale mi chiamò a collaborare; e in seguito sulla parola ottenne di farli uscire di quando in quando per qualche gita didattica. Fu proprio in quel carcere minorile che, come amava ricordare, capì davvero come l’ignoranza sia la peggiore nemica dell’uomo. Manzi considerava la classe scolastica il vero laboratorio in cui mettere alla prova le idee e i metodi per cambiare la didattica. Nel 1981 ricevette una sanzione disciplinare (con sospensione dello stipendio) per essersi rifiutato di compilare i giudizi sulle schede di valutazione. Eccetto il periodo di Non è mai troppo tardi (1960-1968), non abbandonò mai la scuola e continuò ad insegnare fino al pensionamento, nel 1987. Emblematica è questa lettera di congedo dai suoi alunni di quinta elementare: Abbiamo cercato di capire questo nostro magnifico e stranissimo mondo non solo vedendone i lati migliori, ma infilando le dita nelle sue piaghe (…) perché volevamo capire se era possibile fare qualcosa, insieme, per sanarle e rendere il mondo migliore. (…) Ora le nostre strade si dividono. Io riprendo il mio consueto viottolo pieno di gioie e di tante mortificazioni (…). Voi proseguite e la vostra strada è ampia, luminosa. (…) Perciò avanti serenamente, con quel macinino del vostro cervello sempre in funzione (…). E ricordatevi: io rimango qui, al solito posto. Ma se qualcuno, qualcosa, vorrà distruggere la vostra li- bertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono con voi, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi. Per la sua missione di educatore guardava a Cristo come modello e riferimento, intendendo la religione come possibilità di coltivare (…) una speranza insieme e non in solitudine individuale, ha scritto Andrea Canevaro. L’ultima lotta di Alberto Manzi fu con un tumore. La morte lo colse nel dicembre 1997 a Pitigliano, in Toscana, dove s’era trasferito con la famiglia e di cui era sindaco dal 1995. Dal 1995 questo paese del grossetano vanta un parco archeologico a lui intitolato, vero museo a cielo aperto che possa unire la città dei vivi con la città dei morti, come ebbe a dire Manzi, che ne aveva steso il progetto. E ancora a suo nome è sorto, presso il dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università di Bologna, un centro studi che, oltre a raccoglierne e valorizzarne la multiforme produzione, promuove progetti finalizzati alla comunicazione educativa. I temi tanto cari ad Alberto della libertà e della solidarietà, dell’avversione per ogni forma di violenza e per il razzismo, del rapporto fra l’uomo e il proprio ambiente, emergono anche dai numerosi testi per ragazzi di argomento scolasticoscientifico e di narrativa (tra questi ultimi ricordiamo almeno Grogh storia di un castoro e Orzowei, tradotti in mezzo mondo, nonché La luna nelle baracche, El loco, Turipiglio), narrativa animata da uno spessore etico senza cadute moralistiche o didascaliche. Meno noto, invece, è il suo impegno per l’America Latina, dove durante le vacanze scolastiche faceva frequenti puntate per insegnare a leggere e a scrivere a gruppi di analfabeti nelle località più sperdute: esperienza che il romanzo postumo E venne il sabato contribuisce a svelare (vedi box). In Sud America – ricordava Manzi nella sua ultima intervista dell’estate ’97 – andai per la prima volta nel 1955 e ’56 per studiare un tipo di formiche nella foresta amazzonica, ma scoprii altre cose che per me valevano molto di più. C’erano i contadini che non potevano iscriversi ai sindacati, perché non sapevano leggere e scrivere e nessuno glielo insegnava; chi cercava di farlo rischiava di essere picchiato e imprigionato, oppure ucciso. Siccome si trattava di una cosa proibita, mi attirò; così io andavo ogni anno… Poi cominciarono ad accusarmi di essere guevarista, oppure marxista o un qualunque accidente che finiva in ista…. Persona indesiderata per alcuni stati che non gli davano più il visto, il maestro Manzi, quasi buon samaritano che di fronte ad un prossimo nel bisogno sa fermarsi e prodigarsi per lui, ha avuto il coraggio di guardare in faccia l’uomo che soffre. Perché – come egli fa dire ad un suo personaggio – ogni altro sono io, capite? Ogni altro sono io. E VENNE IL SABATO Con grande rammarico devo affermare che i fatti qui narrati sono per la maggior parte realmente accaduti è la premessa di Manzi a E venne il sabato, titolo che inaugura l’attività dell’editrice senese Gorée, il cui obiettivo è di proporre testi letterari legati ai diritti umani (info@edizionigoree. it). Scenario della vicenda è una cittadina amazzonica sperduta nelle coltivazioni della gomma, la cui popolazione – siamo nella prima metà degli anni Ottanta – è costretta a lavorare in condizioni di schiavitù per l’Amazon Company. Ogni tentativo di ribellione viene represso nel sangue. Ma a poco a poco la gente del posto prende coscienza di sé e capisce che solo la solidarietà, la lotta non violenta, la scuola intesa come momento fondamentale della crescita dei singoli e di un popolo e come luogo di esercizio della democrazia sono le armi che la porteranno ad affrancarsi e a riconquistare la propria dignità. E venne il sabato va letto come un omaggio alle risorse insite dei poveri, negli sfruttati – non solo del Sud America – e alla loro capacità di sperare, di farsi loro stessi protagonisti del proprio riscatto.

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