Al di là dell’ombra

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C’era una volta un eremita che aveva fama di grande santità. Viveva in una grotta, digiunava, pregava e compiva anche miracoli. Alcune persone dei paraggi però, invidiose della sua celebrità, cercavano di trarlo in inganno. Assoldarono una prostituta perché recasse da lui e lo facesse cadere peccato. Lei ci provò, ma non vi riuscì. Anzi si convertì e si fece monaca. E la fama dell’eremita crebbe ulteriormente. Lui però, per non essere tentato nella vanità, si rifugiò in un spelonca ancora più remota e intensificò la penitenza. Un giorno – erano passati molti anni e l’eremita non era più giovane – fu portata da lui la figlia d’un mercante per essere guarita. E lui la guarì; ma la ragazza doveva fermarsi presso la sua grotta fino al giorno successivo. Improvvisamente, quella notte, si risvegliò nell’eremita l’ardore dei sensi. Preso da una passione incontrollabile violentò la giovane. Poi, terrorizzato per ciò che aveva fatto, avendo perso completamente la testa, la colpì e la uccise. Allora, come per cancellare il suo orribile gesto e liberarsi di quell’attimo di pazzia, gettò il cadavere nel fiume. In preda alla disperazione, fuggì. Fuggì. E i pensieri si accavallavano tumultuosi nella sua mente: lo stupore per quella passione invincibile, l’orrore per il crimine commesso, la sconfitta d’una vita di perfezione compromessa irrevocabilmente da una orripilante tragedia. Decise che doveva ritornare nel mondo. Più di una volta gli venne in mente di togliersi la vita. Nella sua fuga incontrò un monaco. Si fermò da lui e gli raccontò tutto quello che aveva fatto. Questi lo ascoltò e gli parlò della misericordia e del perdono di Dio. Che attende sempre tutti. Non serviva scappare, doveva ricominciare. L’eremita comprese. Si ritirò nuovamente in una caverna e continuò a pregare e digiunare come mai aveva fatto. Dopo alcuni anni ottenne nuovamente il dono di operare miracoli. E quando morì fu acclamato santo dalla sua gente e nel luogo dove visse fu eretto un santuario. Questa è, più o meno, la storia di Giacomo in Palestina, vissuto verso il VI secolo in una località nei pressi dell’odierna Haifa, e venerato dalla chiesa come santo. Sembra ormai ve- rosimile che il grande scrittore russo Lev Tolstoj si ispirò a questa vicenda per comporre, negli ultimi anni della sua vita, tra il 1890 e il 1898, Padre Sergio, uno dei suoi racconti più potenti e sorprendenti. Dal quale i fratelli Taviani hanno liberamente attinto per creare uno dei loro film più riusciti: Il sole anche di notte. Ma torniamo a Tolstoj. Protagonista del racconto è il principe Kasatskij, un giovane bello, ambizioso e promettente, comandante d’uno squadrone di corazzieri. Deluso dalla confessione della sua promessa sposa di essere stata in passato amante dello zar, egli decide improvvisamente di lasciare il mondo per farsi monaco, prendendo il nome di Padre Sergio. Diventa poi eremita e intraprende una vita di ascesi che ripercorre a grandi linee quella di san Giacomo in Palestina, ad eccezione dell’assassinio della giovane. Tolstoj lavora durante otto anni a questo brevissimo romanzo, sforzandosi intensamente di percorrere ogni meandro dell’anima del suo personaggio, di entrare nei suoi panni fino alla fine. Perché? Lui voleva capire. Voleva comprendere il perché di una caduta così inaspettata, oltremodo incredibile in una persona che ha dedicato tutta la propria vita alla tensione verso la perfezione. Tolstoj, una risposta, la trova. Nel suo Padre Sergio la caduta non è dovuta ad un momento di stanchezza, di distrazione o di raptus. È l’eruzione, come di un vulcano, di un sentimento rimasto in sordina per anni, ma mai assopito: l’orgoglio. Nella vita austera di Padre Sergio l’orgoglio era rimasto sempre vivo; invisibile agli occhi della gente, esso era pronto, pur nell’oscurità della semi- inconsapevolezza, a compiacere di tanto in tanto l’anima del monaco, a lusingarla e a determinare tanti suoi pensieri e atteggiamenti. Ma dove c’è orgoglio non c’è spazio per un’autentica esperienza di Dio. Quindi, paradossalmente, è proprio quando Padre Sergio pensa di aver perso la santità che ha la possibilità di raggiungerla. Nel cedimento egli diventa veramente uomo e, scegliendo di ricominciare invece di concedersi alla disperazione, acquista la possibilità di potenziare quelle virtù che prima erano già in lui, ma in maniera superficiale, perché adombrate e manipolate dall’orgoglio. Questa discesa di Tolstoj nelle viscere più oscure del suo personaggio sembra preconizzare quella che, anni più tardi, lo psicanalista Jung chiamerà l’ombra: il lato oscuro di ogni personalità. Quell’altro che è dentro di noi e che vorremo che non ci fos- se; quel luogo interiore dove si annidano fantasmi e passioni che la coscienza considera riprovevoli e inaccettabili. Lì, dove prospera l’orgoglio. “Ognuno di noi è seguito da un’ombra – scrive Jung -. Meno questa è incorporata nella vita conscia dell’individuo tanto più è nera e densa”. Affrontare la propria ombra è uno dei principali compiti per raggiungere la maturità. Se non affrontata, l’ombra ci porta ad essere continuamente in fuga da noi stessi; se ne sta lì, lei, in apparente torpore, e dopo anni si manifesta all’improvviso, per sorprenderci e sconvolgerci con tutta la sua sorprendente potenza. Se non si viene a patti con l’ombra, se non le si diventa amici, essa generalmente spinge a riversare sugli altri le proprie angosce e paure. È lì che trovano terreno fertile fenomeni lievi come un’inspiegabile antipatia verso una certa persona, e fenomeni più preoccupanti come lo xenofobismo e il razzismo. Eliminarla, l’ombra, non si può; vergognarsene e cercare di dimenticarla, è inutile. Ma si può comprenderla, almeno in parte; per accoglierla e integrarla nella propria personalità. E quando si riesce a fare questo allora si capisce che è proprio l’ombra a dar spessore alla nostra umanità. “Talvolta si deve essere indegni per vivere pienamente”, scrive ancora Jung. Questa frase sembra suggellare in modo singolare sia l’esperienza di san Giacomo di Palestina, uomo in carne ed ossa, sia quella di Padre Sergio, creatura letteraria. Ma Tolstoj, scrivendo Padre Sergio, è mosso anche da un’altra intenzione. Quella di comunicare un aspetto per lui fondamentale: l’accettazione del perdono e della misericordia divina. Nelle ultime pagine del suo breve romanzo sembra infatti echeggiare, come melodia di sottofondo, la poesia del salmo 50, il Miserere. Quel sublime canto di pentimento che il biblico re Davide intona a Dio dopo aver, anch’egli, combinato malefatte della stessa portata di Giacomo e Sergio: “Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve”. Quella misericordia che sta sempre al nostro fianco, pronta ad intervenire nei momenti più bui e confusi della vita. Anche quando l’aver commesso peccati sessuali vergognosi, l’aver addirittura sparso sangue umano, l’aver tradito la fiducia altrui, può indurre a pensare che è definitivamente compromessa ogni possibilità di salvezza. Ma la misericordia si manifesta proprio in questi momenti. Per accedere ad essa è però necessario cogliere un passaggio, lieve ma fondamentale. Padre Sergio, dopo aver peccato, lo coglie incontrando una parente, la precocemente invecchiata, rugosa e rinsecchita Praskov’ja Michajlovna. La quale, sebbene di origine nobile, conduce una vita modestissima nell’isolamento di una cittadina sperduta, donando tutta sé stessa per provvedere alla sua sfortunata famiglia. Ma la sua anima è docile, serena, e a suo modo imponente. Incontrando questa donna egli comprende ciò che gli era sempre mancato: l’umiltà. Non quella ricercata, come lui aveva fatto. Ma quella accettata nella propria miseria esteriore ed interiore, nella propria ombra. Questo passaggio all’umiltà autentica è esplicitato in modo efficacissimo anche da un altro grande scrittore, il francese Bernanos. Che mette in bocca al suo anti-eroe, il curato di campagna, le indimenticabili parole: “Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma, se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente sé stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo”.

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