Ai confini di tutto

In Kenya il 95 per cento del territorio è straordinario e gli animali vivono in posti infinitamente migliori rispetto alle persone che occupano le baraccopoli, o peggio le discariche. Con queste parole verità, come un pugno nello stomaco, Daniele Moschetti, comboniano, inizia a raccontarmi la sua esperienza nella comunità di Korogocho, una delle 220 baraccopoli della città di Nairobi. È in Italia per un tour al fine di far conoscere la cruda realtà nella quale ha scelto di vivere, e per scuotere le coscienze di tutti noi, abituati a un benessere che non meritiamo e che molto spesso non condividiamo. È in Africa dal 1992, sulle orme di Alex Zanotelli, già direttore del periodico Nigrizia, poi a Korogocho dal 1990 al 2002 e ora a Napoli, al rione Sanità. Nessuno voleva accettare la sua pesante eredità, io ci sto provando. Ero già stato a Nairobi e avevo brevemente seguito Alex, fino a quando nel 2002 e presi il suo posto. Nel 1992, durante il primo soggiorno di padre Daniele a Nairobi, le baraccopoli erano 40: ora sono 220. Quella di Korogocho è una delle più numerose: su un’area di un chilometro quadrato e mezzo e ospita una popolazione di 150 mila persone in baracche di fango e lamiera. L’assurdo è che il governo, il comune e i privati chiedono affitti onerosi ai baraccati, che arrivano dalle campagne: l’Onu sostiene che già oggi il 50 per cento della popolazione mondiale vive nelle città e che fra dieci anni la percentuale sarà notevolmente aumentata, soprattutto nel sud del mondo. Dire città in questi casi è un eufemismo: un miliardo di persone nel mondo vive nelle baraccopoli. A Korogocho la situazione è ancora peggiore, è quella di una grande discarica abusiva, nata agli inizi degli anni Ottanta. Accanto scorrono fiumi che diventano fogne. In questo contesto si contano sette villaggi con presenze multietniche di una trentina di gruppi. Il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni, la maggior parte è costituita da bambini di strada andati in città per sfuggire alla polizia. Una realtà durissima, senza infrastrutture, dove vivono esuli, sfollati, persone senza istruzione, senza lavoro, senza mezzi. La violenza, la malattia, la paura, l’alcolismo, la disgregazione familiare sono all’ordine del giorno. I giovani sopravvivono cibandosi di rifiuti, sniffano colla, respirano diossina proveniente dalla decomposizione di quanto viene buttato in discarica, le donne sono costrette alla prostituzione, l’aids domina. Eppure la speranza risorge e la popolazione partecipa sempre più numerosa a progetti di aiuto e di autosussistenza; fioriscono attività imprenditoriali che garantiscono qualche guadagno. Negli ultimi 17 anni, con Alex e poi con Daniele, una piccola comunità comboniana si è insediata nella baraccopoli, condividendone la vita in tutti i suoi aspetti: Alex – dice Daniele – era arrivato solo, poi altri confratelli hanno fatto la sua scelta; anch’io ero rimasto solo per tre anni, oggi siamo in cinque, di cui tre comboniani sacerdoti e due laici, più due keniani gesuiti. Viviamo nelle baracche, non abbiamo guardiani, portiamo un messaggio di liberazione totale dell’uomo, cerchiamo di far emergere i talenti di ognuno. Abbiamo iniziato dalla comunità più emarginata: costatando come i poveri emarginano i loro simili, abbiamo compreso che occorre insegnare l’autodeterminazione. I nostri vicini di casa sono prostitute, alcolisti, ladri…. In questo contesto sono nate le prime iniziative: da quindici anni i lavoratori della discarica si sono uniti in una cooperativa autonoma; le prostitute, spesso con figli e malate di Aids, lavorano per il commercio equo e solidale in un’altra cooperativa e così via. Si producono collane, cinture, croci, cesti, tovaglie, magliette, borse, bambole… I prodotti sono realizzati con materiale di recupero e vengono venduti o localmente o all’estero nella catena del commercio equo e solidale. Le donne nella baraccopoli preferiscono stare sole per non subire la violenza di un compagno, al limite decidono di avere più partner, con il risultato che i figli diventano dei single, non hanno un riferimento paterno. È importante la crescita civile di queste persone: in un territorio così piccolo e disastrato ci sono sette villaggi con tre leader per ogni comunità, eletti dal popolo; sta nascendo una leadership di donne e di giovani e questo è un segno positivo. I terreni e le baracche continuano ad essere gestiti dalla mafia locale, che pretende 500 scellini al mese per l’affitto di una baracca, quando al massimo il guadagno degli abitanti arriva a 2 mila. La discarica continua ad emanare diossina pura e molti muoiono di tumore. La situazione è esplosiva, vige la legge del più forte, ma vediamo sempre più segni di speranza; a fine anno ci saranno le elezioni e qualcosa cambierà, si spera. Ho visto la gente crescere, essere più sensibile, far valere i propri diritti. Uno dei nostri leader è morto recentemente a 38 anni, era il coordinatore di tutti i leader di Korogocho: viveva il Vangelo, era diventato un simbolo per gli altri, era rimasto single perché ammalato ai polmoni a causa della discarica. Come accettano la vostra presenza? Noi facciamo parte integrante della comunità. Visitiamo i malati e tutti i giorni celebriamo la messa per loro, le loro famiglie e le persone che li assistono: le celebrazioni liturgiche diventano vita quando mettiamo al centro i problemi della gente. Dovremmo imparare a farlo anche in Italia.

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