Acquerelli d’estate

A Procida ho reimparato a stupirmi del quotidiano
procida vivara

“Emozione garantita”: è lo slogan con cui un’agenzia turistica, servendosi di un linguaggio accattivante, prospetta agli amanti di una vacanza movimentata scarpinate in cima all’Everest, notti in feluca sul Nilo, spedizioni in minibus nella foresta amazzonica; e chi più ne ha più ne metta. London, Salgari, Conrad, Melville e tutti i magici evocatori di regioni lontane e un tempo quasi inaccessibili, non sappiamo più che farcene di voi. Oggi, nel giro di poche ore, è possibile andare a verificare sul posto, da protagonisti: purché – avverte l’agenzia – si abbiano buone gambe e buoni polmoni.

 

L’avventura a portata di mano, l’emozione “garantita”. E dopo l’emozione? Mi viene il sospetto che questa caccia al nuovo e all’eccitante, anche in altri campi, sia indice di uno spirito ormai incapace di apprezzare ciò che di bello e d’interessante c’è a portata di mano. Come se vacanza non fosse anche pausa necessaria di riposo, la possibilità di guardarsi attorno, d’incontrarsi più a fondo – e con calma – con sé stessi, gli altri, le cose. È quel che m’è capitato a Procida. Non un atollo corallino con palmizi e noci di cocco, ma una isoletta del più puro stile “mediterraneo”. E quanto alle emozioni, neanche uno squalo sperduto: tutt’al più qualche banale medusa, di quelle che da un po’ di tempo infestano i nostri litorali. Invece ho trovato altro, e di meglio.

 

Mimì della Chiaiolella 

Chiaiolella. Il solo musicalissimo nome evoca un che di gentile, di piccolo, di raccolto. Come una conchiglia iridescente apparsa sulla spiaggia dopo una mareggiata. È un pugno di casette giallo-rosate che s’affacciano a corona, tra orti e vigneti, intorno alla più graziosa delle insenature di quest’isola. Case umili, di pescatori, che, in un trionfo di archi e logge e tetti a volta, paiono modellate dal vento e colorate dal sole: un miracolo di architettura spontanea dalla rustica eleganza.

 

Qui abitano i miei ospiti: Ninetta, suo marito Mimì (Domenico) e Teresa, la madre di lei. Mimì fa il pescatore. Schivo, taciturno, ma cordiale: tale l’ho conosciuto all’arrivo. Poi per tre settimane non l’ho più visto, lui che di notte lavora e di giorno riposa. Tanto che m’è venuto il dubbio di averlo mai incontrato.

Ninetta, la moglie, racconta pacatamente – con pudore, si direbbe – storie di fatiche e di sacrifici. A sera, dalla finestra che guarda sul porticciolo zeppo di imbarcazioni da pesca e da diporto, m’indica all’orizzonte stelle diverse da quelle che brillano su in alto: sono lampare tremule, perfettamente equidistanti. «È là – accenna al marito –, è su quella di mezzo». Ci passerà tutta la notte per tornare soltanto ai primi albori. Cerco di immaginarmelo, questo Mimì appena intravisto, intento alle sue reti, tra cielo e acqua. Ma non si dilegua l’alone fantastico che me lo rende quasi un essere mitico.

 

L’indomani, però, a pranzo, Mimi ritorna creatura reale, grazie ad un segno tangibile della sua esistenza. Ed è il frutto della sua fatica notturna: la fragrante frittura che Ninetta mi appresta con semplicità, schermendosi da complimenti.

 

 

I Robinson di Vivara

Vivara: un’isoletta a virgola, frammento di un antichissimo cratere sprofondato in mare. Ora è congiunta a Procida da un ponte, ma una volta, ai tempi di nonna Teresa, ci si doveva andare in barca. Riserva di caccia dei Borbone, l’equilibrio naturale vi fu quasi del tutto sovvertito verso la fine del secolo scorso, quando gran parte della splendida e selvaggia vegetazione venne distrutta e sostituita con colture a vigneti e a oliveti.

 

Ora però che la flora spontanea sta lentamente riprendendo il sopravvento e anche il patrimonio faunistico s’è di molto arricchito, specie di volatili, Vivara – amorosamente custodita dall’associazione naturalistica del “Trifoglio” – è diventata un vero e proprio parco naturale.
Dal casotto d’ingresso il presidente dell’associazione invita cortesemente alla visita. Dopo essere ascesi al pianoro superiore per una scala di pietra fiancheggiata da cespi odorosi di mirto, lentisco e ginestre, tra rami penduli di caprifoglio,
proseguiamo per un viottolo che s’inoltra nella fitta boscaglia di querce, corbezzoli, eriche. E chi se l’immaginava che a poche miglia dalla congestionata Napoli ci aspettasse un tale paradiso terrestre?
 

Sbuchiamo in una radura, accanto al vecchio casale borbonico all’apparenza disabitato. E qui un’altra sorpresa: sotto un pergolato, facciamo conoscenza con un giova- ne “trifoglista” ventenne, che si dedica a osservazioni naturalistiche, e con un etnologo d’una trentina d’anni. Due autentici “Robinson” che hanno preso stanza qui per trascorrere delle vacanze scientifiche ed ecologiche.
 

E poi c’è un terzo personaggio: un coniglietto bianco addomesticato, che si lascia prendere docilmente. Forse un discendente di quelli immessi a scopo di caccia, due secoli fa, da re Carlo III? Mentre sorseggiamo un caffè in bricchi rinvenuti nella cucina fuligginosa, i due ci informano di misteriosi esperimenti atti ad affinare facoltà percettive in parte atrofizzate dalla vita “civile”: come l’andar su e giù per le ripe boscose dell’isolotto, al chiaro di luna, sostenendo pesi considerevoli.

 

«È per prepararmi alle fatiche e agli imprevisti di una prossima spedizione in Africa» spiega l’etnologo, malcelando la soddisfazione di essersi messo dietro le spalle – almeno per un po’ – impegni familiari e universitari.
«Sapete – aggiunge con orgoglio –, ora da qui riusciamo a percepire perfino i discorsi che avvengono alla Chiaiolella». Stento a crederci. Ci spostiamo sull’aereo belvedere che guarda verso quella spiaggia formicolante di bagnanti, e ci arriva alle orecchie un brusio come di api, a tratti anche qualche scoppio di risa, ma quanto a distinguere parole…

 

 

Tommaso o chi tu sia

Tommaso, o come ti chiamerò? Vincenzo, Pasquale, Michele… giacché non conosco il tuo nome. In mezzo ai turisti e agli isolani t’ho notato subito. Capelli grigi scomposti, barba di qualche giorno, camicia e pantaloni non proprio puliti e un po’ sbrindellati. E le scarpe? Forse neanche le avevi. A piedi nudi, libero. Libero: questa l’impressione al vederti. Sei considerato un povero demente, ma innocuo. La gente del luogo, che ti conosce, non fa più caso a te; i turisti, se pure s’accorgono della tua presenza, hanno altro da fare, presi come sono da mille attrattive. Ma ce l’hai una casa, una famiglia, qualcuno che si cura di te?

 

Appari e scompari nei posti più diversi, come una sorta di “ebreo errante”. Dalla Marina Grande alla Corricella. Un giorno ti si scorge fiduciosamente addormentato ai piedi di un distributore di benzina, quasi in mezzo all’andirivieni dei passanti e delle auto. Un altro sulla banchina, seduto su un rotolo di gomene, pensoso. Un altro ancora, sei fuggevole apparizione sullo sfondo di un canneto frusciante, mentre il vento ti scarmiglia i capelli e s’ingolfa nella camicia come in una vela. Rapido pur nel passo un po’ dondolante, sembri avere una meta. Ma non ce l’hai.

 

Fa pensare quella tua espressione assente al mondo esterno quanto assorta – così credo – in un qualcosa che emerge dall’interno e noto a te solo. Sul volto scarno color terracotta, l’accenno d’un sorriso, come all’annuncio di una esprimibile felicità.

 

Il filo di zia Lucia

 

Spingo l’uscio corroso dalla salsedine e mi trovo in un rustico cortile. Un fico getta ombra su una facciata bianca di calce. Una noria per attingere acqua dal pozzo, da lungo tempo in disuso, dà al luogo un tocco arcaico, evocatore di cigolii e di pazienti giri dell’asinello legato al congegno (“lo ’ngiegno”). E qui, seduta come su di un trono, a cielo aperto e sotto le fronde, sei tu, zia Lucia.
Ti sorprendo nel gesto antichissimo della filatrice, fissato in immagine sui vasi di Micene e di Creta. È lino quello che stai filando. Le dita nodose, abilissime, ne strappano una porzione dal pennecchio, l’arrotolano sul fuso, lo torcono con rapida mossa e lo lasciano pendere e girare, mentre il filo s’allunga per l’aggiunta di nuove fibre. Una meraviglia.

 

Hai filato da sempre, per guadagnarti il pane: dal tempo che con manine di bimba t’industriavi ad imitare l’opera d’un’altra esperta ava. Hai filato quando il sole si riverberava accecante dalle candide casupole, tra cicaleccio d’amiche e di fanciulli, e quando fuori rumoreggiava la burrasca e tu premevi in cuore l’angoscia per i marinai lontani. Hai filato mentre, senza nozze, passavano la giovinezza, la maturità; e ancora fili, al tramonto d’una esistenza operosa. Già, quelle dita che han faticato tanto non sanno più restare ferme; e quando non sono intente al fuso sgranano rosari. Hai filato… e quel filo (così l’immagino) s’è allungato, s’è allungato nel tempo, avvolgendo come una preghiera il mondo inconsapevole.

 

Ti guardo, compreso dalla dignità del tuo gesto; e –giacché non ti neghi a domande – t’ascolto. Ciò che mi sfugge della tua parlata (simile al napoletano è il dialetto di Procida, ma con più vestigia greche), nulla toglie alle tue storie ricche di sapienza, di arguzia, di vivacità, anche là dove parlano di dolore, di sacrificio. Storie di fede robusta e semplice, che non sa capacitarsi di come possa esserci al mondo gente che non crede: per te è tutto così chiaro, trasparente come questi fondali tappezzati d’alghe.

 

Gesù, Maria, i santi sono qui di casa, ne parli come di tuoi parenti. E quelli del Vangelo sono fatti di famiglia. Certo, alcuni episodi, narrati da te con mimica unica, non hanno riscontro nei Vangeli: apocrifi chissà come a te tramandati. Ma poiché sono belli – ti viene da chiederti – non potrebbero esser veri?

 

Ora mi inviti a entrare nell’umile casetta: è per mostrarmi alcune tovaglie e lenzuola delle infinite che hai tessuto e sono emigrate un po’ dovunque. «Siente che frischezza!» fai, estraendole dal comò delicatamente, come fossero creature vive.

 

Mi spieghi che il lino all’inizio è ruvido e di un bel colore avorio, ma poi col sole, l’aria e i ripetuti lavaggi sbianca e diventa morbido. Ed è indistruttibile. Dura secoli e secoli. Lo sospettavo, zia Lucia, che tu filassi qualcosa di eterno.

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