A Venezia si cerca l’uomo

Ecosì, dopo il Leone di due anni fa con Brockeback Mountain, Ang Lee, taiwanese trapiantato ad Hollywood, se ne porta a casa un altro. Verdetto non scontato, dato che i favoriti da pubblico e critica sembravano essere il francotunisino Le graine et le mulet – epopea popolare di una comunità con risvolti familiari intrecciati ed un finale speranzoso – e l’omaggio calligrafico a Bob Dylan I’m not there, con un gruppo di interpreti perfetti nelle storie umane che fanno rivivere simbolicamente la biografia di Dylan. Entrambi hanno ricevuto ex aequo un poco consolante (almeno per il regista Kechiche) Premio speciale della giuria. Ci si chiede cosa abbia convinto la giuria composta da sei registi, fra cui gli italiani Crialese ed Ozpetek, presieduta dal maestro cinese Zhang Yiumou a premiare un autore certo di grande mestiere e di estrema abilità tecnica, ma che continua da anni a viaggiare intorno ad un unico registro: l’opposizione tra sentimento e ragione, con risvolti drammatici o, come in Lust Caution – Lussuria, attenzione – melodrammatici, dove più che la poesia domina l’estetismo ed un nichilismo di fondo in cui l’uomo non perde la sua malvagità, non sa nemmeno chi sia. Naturalmente, Ang Lee non approfondisce. Racconta con ricchezza di particolari la storia della ragazza che cerca di sedurre e uccidere un temibile funzionario cinese, per il quale però in seguito darà la vita. Niente di diverso dagli standard hollywoodiani cui siamo anche troppo abituati, se non per il glamour di sensualità tutta orientale – il film è girato in patria – e per la storia, vera, ambientata nel 1940 a Shangai durante l’occupazione nipponica. La Cina è ormai tra noi, e a Venezia si è espressa in modi diversi: o con la rivisitazione del nostro Spaghetti western – di cui si offriva in mostra una documentata rassegna – in Sukiyaki Western Django, cosi onirico e truculento da sfiorare il kitsch (con sommo piacere di Quentin Tarantino che vi si è ritagliato una particina) o con l’amarissimo Banbang wo aishen dove una Taiwan notturna e lacerata fa da sfondo a giovani vite distrutte dall’eros e dalla paura. Insomma, l’uomo orientale – a quanto appare – è infelice quanto quello dell’Occidente malato di sazietà o di conflitti sociali irrisolti. Dove sta andando allora questo uomo? La mostra d’Arte veneziana è sembrata chiederselo e la risposta non è stata univoca. Regna una incertezza di fondo. Un maestro come Eric Rohmer torna alla poesia arcadica: resuscita una leggenda del tempo dei Druidi e narra la passione di Astrea per Celadon con la purezza dell’idillio e i colori dei quadri di un Poussin. L’amore è forte e totalizzante: Rohmer si serve del mito per esprimerne la verità, così come il regista spagnolo Josè Luis Guerin usa il volto e il silenzio di un giovane che vaga per Strasburgo cercando Silvia, una donna conosciuta anni prima (En la ciudad de Sylvia). Un’opera raffinata – ingiustamente trascurata -, dotata di una carica passionale fatta di sguardi, passi e di vie, che parla ogni attimo dell’amore senza bisogno della retorica hollywodiana. Dice anche, questo film, come esistano autori giovani capaci di esprimere in modo originale i sentimenti di sempre, captando lo sbandamento, anche sentimentale, la fragilità dell’uomo – il maschio, onnipresente in tanti film in Laguna da sembrarne il protagonista – in un mondo che ha perso l’equilibrio. C’è chi resiste. Manoel de Oliveira, 99 anni, canta un soave inno d’amore alla moglie, con la dolcezza dei vecchi e dei portoghesi nobili e silenziosi, convinti, come lui, che Colombo sia della loro patria e non un italiano… Nikita Mikhalkov non ha paura di costringere i dodici giurati che devono assolvere o condannare un giovane ceceno accusato ingiustamente dell’omicidio di un russo a un esame di coscienza severo sulla propria vita – il film è appunto 12 – ma anche sull’operato di Putin e del governo russo attuale. Film di impianto teatrale, ottimamente recitato – ha meritato il Leone d’oro speciale -, scava col coltello nell’anima di questi uomini, cavando ciò che si vorrebbe nascondere e mettendo ciascuno davanti alla possibilità di essere veramente liberi. Come sarà per uno dei giurati che, unico, darà una vita futura al ragazzo ceceno. Così come Brian De Palma ha il coraggio di puntare il dito su una guerra insensata, quella in Iraq, voluta dal governo Bush che ha prodotto nei giovani che la vivono una tragedia allucinata, di cui è spia il massacro di una inerme famiglia irachena. O Ken Loach sullo sfruttamento degli immigrati una volta arrivati in Europa. A Venezia dunque non sono mancate opere di rilievo. Il panorama infatti si presentava in genere dignitoso – anche all’esterno, meno gossip, minor fanatismo -, con alcune riuscite escursioni in campo strettamente artistico, come il film di Greenaway su Rembrandt o di Portabella su Bach, e altre di desolante realtà sociale. Ma, in una mostra dove anche il fattore politico-economico, inutile nasconderlo, ha il suo peso è evidente che i giurati hanno dovuto faticare non poco per accontentare il cinema dei consumatori e quello degli spettatori , come ha argutamente notato il regista Josè Luis Guerin: ossia il blockbuster e l’arte. Soddisfazione agli americani con il (meritato) Premio alla carriera a Tim Burton e come miglior attore a Brad Pitt (?) e miglior attrice a Cate Blanchett, agli italiani con il Leone d’oro del 75° della mostra a Bernardo Bertolucci; dei cinesi, si è già parlato. Perciò, la Mostra ha dovuto accontentare le più diverse esigenze. La cosiddetta arte cinematografica è rimasta? Nonostante tutto, resiste. Essa ha cercato l’uomo, e grazie ad autori vecchi e nuovi, l’ha trovato: irrisolto, inquieto, fragilissimo. Con un barlume, qua e là, di un possibile futuro. Quanto a noi, del Belpaese, non abbiamo fatto una gran figura. Le solite cose, ormai logore: ancora mafia, con l’educazione alla vita di un giovane (un bravo Luigi Lo Cascio) ne Il dolce e l’amaro di Andrea Porporati, che avrebbe potuto osare di più, uscendo dagli schemi; la consueta visione al negativo di un’Italietta cinica e corrotta ne L’ora di punta di Vincenzo Marra, il pretenzioso Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi o il televisivo, stancante Le ragioni dell’aragosta di Sabina Guzzanti. Nessuno di loro è nemmeno stato nominato in giuria. Peccato, perché qualcosa di dignitoso l’Italia ce l’avrebbe avuto un giallo rigoroso come La ragazza del lago di Andrea Molaioli con attori come Tony Servillo, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, o Non pensarci di Gianni Zanasi, che evita il facile provincialismo per un esame psicologico tutt’altro che superficiale. Certo, si ha l’impressione che alle Mostre o ai festival si presentino a volte lavori italiani più ricchi di intenzioni (buone) che di realizzazioni (valide), lasciando in ombra autori che invece avrebbero qualcosa di originale da dire. Oggi, è calato il sipario sulla mostra d’arte veneziana. Cosa augurarle, ora che si prospetta la costruzione di un nuovo Palazzo del cinema, pronto – si dice – per il 2011? Forse che l’enorme palla che nella felliniana Prova d’orchestra sfondava il muro – ripresa nell’allestimento attuale da Dante Ferretti – continui ad aprire varchi per nuove idee e nuovi linguaggi. Venezia ne ha la vocazione e, se si vuole, il coraggio.

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