A Spoleto doppio Beckett

Scelta felice quella del regista Bob Wilson di portare alla ribalta del Festival di Spoleto due titoli di Beckett accomunati dallo stesso tema: quello del tempo e dei ricordi smarriti, delle memorie perdute. Cambia solo il modo di viverli e la condizione fisica dei due protagonisti.

 

Per Winnie, in Giorni felici, le tracce rimaste della vita stanno negli oggetti quotidiani che estrae dalla sua borsetta e nei gesti che l’accompagnano; per l’anziano de L’ultimo nastro di Krapp, invece, sono in una bobina che riascolta dopo trent’anni con la sua voce giovanile incisa. Ascolta e commenta una sorta di pagina di diario registrata tirando bilanci riflessivi di ieri e di oggi per dichiarare il fallimento di sogni e ambizioni. E di un grande amore perduto.

Wilson, qui anche interprete, sembra però svuotare la dimensione tragica del testo. Dipinto di biacca e dalla lenta gestualità orientale, fa del protagonista una sorta di clown, una marionetta metafisica ghignante con movenze chapliniane. Nell’algida scena al neon con una stilizzata libreria-archivio alle spalle, i primi dieci minuti sono di fragorosi tuoni e lampi temporaleschi. Quindi, nel silenzio e complici lame di luci, si stagliano gesti distillati: dall’armeggiare, seduto a tavolino, con la “scatola tre, bobina cinque” per ascoltare la sua voce, allo sbucciare la banana assaporata con solennità. Il suo Krapp è un essere esangue, la cui linfa della poca vita ormai rimastagli sembra manifestarsi nel rosso acceso dei calzini che vedremo solo alla fine.

 

La firma visiva di Wilson è riconoscibile anche nella fredda eleganza della scena di Giorni felici, aperta da un forte sibilo di vento. Sullo sfondo cangiante di colori lividi, fregiato per pochi minuti da una saetta al neon su un blu notturno, la protagonista viene immersa dentro un monticello di lastroni d’asfalto. Interrata fino alla cintola, quindi fino al collo, ella cerca di tramutare ogni nuovo dì in un giorno felice attraverso dei rituali quotidiani, al fine di trovare un significato alla vita. Nel suo parlarsi addosso, dentro una quotidianità sdrammatizzata, l’ostinata positività le impedisce di guardare lo sfacelo del mondo circostante nel quale è rimasta sola col marito ridotto a larva umana.

Il gran testo ci ha abituati a magistrali prove d’attrici. Non sfugge ora Adriana Asti, bravissima, ma paiono troppo lieve il suo affondo nel vaniloquio e quasi meccanica la sua recitazione. Non avvertiamo quei soprassalti smarriti e quei brividi d’angoscia di cui è venata la pièce che ne fanno, per contrasto, un inno alla vita.

 

 

Il Gabbiano di Ronconi

 

Frutto di un processo creativo con attori professionisti e appena diplomati, Luca Ronconi ha presentato nel suggestivo spazio di San Simone Un altro gabbiano. Uno spettacolo senza scene e costumi, a metà fra prova aperta e rappresentazione compiuta che ha permesso di indagare in libertà, ma all’interno di regole precise, il celebre testo di Cechov. E risulta incisivo più che mai quanto quei personaggi siano completamente viziati di teatro e di letteratura, e in nome della vanità si consumano. Con lo stesso Ronconi in scena, seduto a tavolino a dire le sue battute, un gruppo di attori bravissimi con voluti eccessi di enfasi, di toni istrionici, ricchi di sfumature.

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