La fine del calvario dei fratelli Diana

Dopo tanti anni, ha un termine la kafkiana vicenda giudiziaria che ha visto come protagonisti due imprenditori di Casapesenna, roccaforte della camorra, la quale aveva ammazzato il padre Mario per aver resistito alle pressioni della malavita locale. Antonio e Nicola Diana sono stati assolti
La famiglia Diana, con i fratelli Nicola e Antonio. Foto della Fondazione Diana.

Antonio Diana e suo fratello Nicola sono imprenditori nel campo del trattamento dei rifiuti nella zona dove la camorra casertana più ha colpito: Casal di Principe e comuni limitrofi. Quando entri nei cancelli delle loro fabbriche, pare di essere finiti in Olanda o in Svezia, tanta è la pulizia e l’ordine che regna in un luogo che di per sé dovrebbe essere poco pulito e poco ordinato, perché decine e decine di camion ogni giorno scaricano la loro mercanzia di immondizia. Il fatto è che nei loro geni hanno uno spirito imprenditoriale maturo, ereditato dal padre Mario, che fu ammazzato dalla delinquenza organizzata il 26 giugno 1985 davanti a un bar di Casapesenna, perché non volle sottostare alle imposizioni della camorra.

La vicenda industriale dei fratelli Diana, un modello per la zona, ha subito un duro colpo il 15 gennaio 2019, allorché i due, con lo zio Armando, furono arrestati dagli uomini della squadra mobile della questura di Caserta, all’alba: le loro diciassette società vennero sequestrate e messe sotto custodia giudiziaria. Si tratta di società per la lavorazione di materiali plastici, trasporti e logistica, ma pure società immobiliari, esercizi commerciali, società agricole, dislocate nell’agro aversano e nel territorio campano. Un colpo duro, furono gli arresti domiciliari, per un provvedimento dettato dalle dichiarazioni di alcuni presunti pentiti.

L’arresto fece scalpore, perché Antonio e Nicola Diana per anni erano stati considerati imprenditori modello, capaci di resistere alla camorra persino nella gestione dei rifiuti, un mercato appetitosissimo per la malavita. I sette pentiti, che avevano vuotato il sacco alla Dda di Napoli, li accusavano nientemeno che di essere imprenditori amici del capoclan dei Casalesi, Michele Zagaria. Per gli inquirenti, la fondazione col nome del padre era solo una facciata per coprire i loro loschi progetti mafiosi. Un’accusa infamante per due imprenditori casertani che avevano ricoperto ruoli dirigenziali anche all’interno della Confindustria di Caserta e alla Camera di Commercio locale. Scrive un quotidiano locale, CasertaNews: «Nonostante le accuse mosse dalla Procura antimafia, a ogni udienza i germani Diana si sono sempre mostrati composti, lontani da esibizionismi, da esternazioni inopportune anche quando le ricostruzioni della Dda li mettevano al centro dei meccanismi del clan dei Casalesi».

Chi ha frequentato in questi anni i fratelli Diana, non ha potuto che costatare la loro moderazione nel reagire alle infamanti accuse, pescando nella fede e nell’amicizia la forza per non soccombere alle sconsiderate accuse dei pentiti, avallate da alcuni giudici. Non una parola contro la magistratura è stata pronunciata da Antonio e Nicola, fiduciosi che alla fine la giustizia avrebbe trionfato. Ed è quello che è successo: assoluzione piena per i fratelli Diana e per lo zio Armando, deceduto nel corso del processo. Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, infatti, presieduto dalla giudice Luciana Crisci, ha posto fine alla lunga odissea giudiziaria (cinque anni d’indagine e cinque di processo), basata solo sulle dichiarazioni aleatorie e discordanti dei sette “collaboratori di giustizia” risultati alla fine inattendibili.

L’accusa, nella persona del sostituto procuratore Fabrizio Vanorio della Dda di Napoli, che aveva ereditato il processo dai colleghi Alessandro D’Alessio e Maurizio Giordano, aveva chiesto sette anni e sei mesi di reclusione, descrivendo i fratelli Diana come manipolatori degni della migliore letteratura giudiziaria. C’era stata un’avvisaglia del cambiamento di clima giudiziario allorché, a qualche mese dagli arresti, la Cassazione, esaminando le misure cautelari emesse nei confronti degli imputati, aveva sentenziato che l’ipotesi accusatoria mancava addirittura «del fumus del reato ipotizzato».

Dieci anni di calvario per i fratelli Diana, dunque, risolti con un’assoluzione piena perché il fatto non sussiste. Com’è possibile, ci si chiede, che gente onesta debba percorrere tutte le stazioni della via crucis per le parole al vento di pentiti che pentiti non lo sono? Sentenze come questa obbligano a riflettere sulle metodologie investigative e sulla necessità di strumenti legislativi adeguati che non compromettano i diritti fondamentali degli imputati. Com’è che lo Stato può essere messo nelle condizioni di distinguere chi dice il vero e chi il falso? E perché portare avanti per dieci anni un processo che poteva essere concluso in tempi molto più brevi, sottoponendo a gogna mediatica uomini e donne innocenti? E chi compenserà i danni imprenditoriali e quelli morali arrecati ai due imprenditori?

Domande ovviamente retoriche, ma che hanno bisogno di risposte più generali da parte dello Stato, se si vuole che la lotta antimafia e anticamorra sia efficace e giusta. Comunque, l’assoluzione di Antonio e Nicola Diana rappresenta una vittoria del diritto alla difesa e della presunzione di innocenza, e per questo bisogna brindare.

Questa vicenda testimonia come in luoghi considerati solitamente malfamati e incorreggibili, pensiamo a Casal di Principe e ai comuni dell’agro aversano, marchiati negativamente dalla camorra, siano cresciute e vivano persone oneste che hanno dato la vita per la legalità: su tutti don Peppe Diana e Mario Diana. Ma ancor oggi quella terra difficile vede crescere persone come Antonio e Nicola Diana che non esitano a onorare le loro origini, riscattando la loro regione.

Buon lavoro, Antonio e Nicola!

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