Se 59 missili non fanno la politica estera Usa

Una prova di forza o un monito alla Russia e alla Corea del Nord? Una reazione emotiva alle immagini dei bimbi siriani uccisi dal Sarin o un cambio di rotta al suo motto America First? L’imprevedibilità di Trump alla prova del mondo

«La guerra civile in Siria non è un problema dell’America», ha tuonato per mesi il candidato Trump e «la Russia dovrebbe essere amica dell’America», ha ribadito sia in campagna elettorale che in queste prime settimane di presidenza, nonostante l’intelligence statunitense stia indagando sulle forti pressioni sovietiche nelle elezioni dello scorso novembre. Proprio qualche settimana fa poi, aveva dichiarato, per bocca del segretario di stato, che Assad poteva mantenere il suo potere, e nel 2013 aveva criticato fortemente Obama deciso ad intervenire in Siria a seguito dell’uso di gas tossici che avevano ucciso circa 1400 persone. Venerdì invece qualcosa è cambiato. Trump ha dato l’ordine di colpire con 59 missili (resta da capire perché non 60) la base siriana da cui presumeva fossero partiti i carghi con il gas Sarin che ha provocato la morte di circa 80 civili, un numero inferiore a quello del 2013 ma evidentemente decisivo per l’intervento.

 Gli analisti politici statunitensi e i commentatori sono divisi: qualcuno ha ritenuto la prova di forza Usa necessaria a mostrare che esiste ancora un Paese guardiano della democrazia, capace di intervenire con determinazione, al contrario di Obama considerato troppo morbido; altri accusano Trump di dilettantismo e di aver agito sull’onda emozionale senza considerare le conseguenze del suo gesto.

In queste settimane ci stiamo abituando alle posizioni ondivaghe del nuovo presidente, dalla protezione delle frontiere, all’ambito giudiziario, all’ambiente e in politica interna: se “America First – prima l’America” è stato il suo motto in campagna elettorale, a ribadire il marginale interesse per gli esteri, non si comprende perché siano state dirottate ingenti somme di denaro sulle forze armate e sugli apparati militari che dovrebbero comunque essere impiegati all’estero, visto che la situazione interna non minaccia imminenti conflitti. Ma Trump ha, candidamente, confessato durante la conferenza stampa di sabato scorso di essere «una persona molto flessibile», guidata da valori e obiettivi ma «senza un modo specifico di azione, perché non mi piace dire dove sto andando e cosa sto facendo».

Kathleen H. Hicks, un ex ufficiale del Pentagono, ora membro del centro per gli studi strategici internazionali ha dichiarato che «non esiste una dottrina Trump in politica estera ma ci sono elementi sparsi riconducibili alla personalità del presidente e cioè: imprevedibilità, istintualità e indisciplina». E quindi con questa incertezza dovranno fare i conti anche i capi di governo in tutto il mondo e la Siria rientra in questa logica.

 Le contraddizioni e le violazioni del diritto nell’attacco al governo di Assad sono fonte di aspri dibattiti anche all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu che in pochi giorni si è riunito più volte per valutare la situazione ed evitare il degenerare dell’apparente “entente cordial” di Russia e Usa. I russi hanno più volte ribadito nel loro intervento all’Onu che «si è persa la presunzione di innocenza» e che si è già decisa la colpevolezza di Assad prima ancora di fare indagini e accertamenti. L’ambasciatore italiano all’Onu, Sebastiano Cardi, presente alla seduta ha dichiarato in un’intervista a “La Voce di New York” che l’Italia, la Francia e il Regno Unito hanno chiesto con insistenza l’accertamento delle responsabilità attraverso organismi dell’Onu che già in passato avevano dichiarato che «non solo il regime, ma anche altri in Siria, ma soprattutto il regime, si sono già resi responsabili di questi crimini»; eppure l’ambasciatrice statunitense, Nikki Haley, con in mano le foto delle vittime del Sarin ha dichiarato con forza: «Quando all’Onu non si riesce a prendere una decisione, diventa nostra responsabilità agire comunque», ripetendo un protocollo noto che mette tra parentesi il ruolo di negoziazione super partes delle Nazioni Unite, ma anche le indicazioni del Pentagono. Il dipartimento di difesa ha ribadito, fin dall’amministrazione Obama, che la guerra in terreno siriano ha troppe incognite ed è troppo impervia e quindi è bene starne fuori per non ripetere un secondo Iraq.

 Eppure Trump ha attaccato ignorando anche le norme costituzionali che prevedono un accordo del Congresso in caso di interventi militari: solo in situazioni di imminente pericolo il presidente, che è anche Commander in Chief (Comandante in capo) può agire scavalcandolo. L’uso del gas Sarin in territorio siriano non è da considerarsi “pericolo imminente per gli Stati Uniti” e quindi non giustifica questa decisione solitaria. Quando Obama nel 2013 si era rivolto al Congresso per l’autorizzazione all’attacco in Siria gli stessi repubblicani, forti dei sondaggi contrari alla guerra e convinti che il ruolo di gendarme del mondo era da archiviare, avevano espresso totale contrarietà all’intervento, mentre oggi il presidente espressione del loro partito agisce nella direzione opposta. In quell’occasione Obama aveva voluto che tutti i deputati e senatori rispondessero delle loro azioni di fronte alla base e che la responsabilità di una eventuale guerra fosse condivisa e non solo sua. 

Ulteriore nodo della politica estera di Trump riguarda le frontiere. La sua preoccupazione per i bimbi assassinati con il Sarin non si traduce in una politica di accoglienza dei profughi e dei rifugiati, in cui gli Usa rischiano di essere “last”, ultimi. Le frontiere restano sigillate. Anche l’agenzia Onu per i rifugiati parla di 11 milioni di siriani all’estero, di cui cinque milioni sono considerati rifugiati e vivono nei campi profughi di Turchia, Giordania e Libano con 3.84 dollari al giorno, il costo di un caffè da Starbucks, ma forse questi numeri e le foto di questi luoghi di disperazione, non sono ancora sufficienti ad intervenire stavolta non con altri 59 missili ma aprendo le porte di casa.

 

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