Essere o non essere umani?

Una riflessione sulla libertà umana, sul libero arbitrio, sulla fiducia che un mondo migliore sia possibile
natura
Foto Pexels

Essere o non essere umani. Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi è l’ultimo libro di Björn Larsson. Un titolo amletico che porta in quel di Testo (la fiera della piccola e media editoria fiorentina) un dubbio ancora più incerto: cosa significa “essere umani”? Lo scrittore e docente alla scuola del libro Vanni Santoni dialoga con l’autore svedese, non tanto per trovare la risposta alla domanda delle domande, ma per sfatare uno dei miti contemporanei per eccellenza: il mito della scienza.

Ma come può la scienza essere un mito? Si parla di fatti, mica di favole… Eppure, un sistema di saperi sempre più specializzati, organizzati in compartimenti, tradisce un’immagine frammentaria della cultura umana; una narrazione sull’umanità come specie in via di “speciazione”, più che di evoluzione.

Il docente di letteratura francese all’Università di Lund si interroga su questa deriva “liquida”, per dirla con Zygmunt Bauman, della specificità umana; e lo fa dal punto di vista dello scienziato (come studioso del linguaggio) e di umanista (come scrittore). Un doppio vertice di osservazione che sembra rispecchiare i due poli che si contendono l’animo umano: il determinismo, per il quale viviamo nell’unico mondo possibile; e l’indeterminazione, che ci consegna alle forze cieche del caso.

Larsson e Santoni non hanno dubbi al riguardo: deve esserci un margine di scelta, una qualche forma di libertà. Del resto, escludere a priori la possibilità del libero arbitrio – in nome del caso o del principio di causa-effetto non fa differenza – è un paradosso: quale scienziato può dire “non esiste” senza temere, neanche per un momento, di essere smentito dall’esperienza?

Un esempio in merito è quello dell’etica nelle neuroscienze. Com’è noto, la ricerca sperimentale è guidata da norme che hanno lo scopo di prevenire risultati scientifici validi, ma ottenuti in modi da far rizzare i capelli – magari in nome di un “bene superiore”. Cionondimeno, se l’obiettivo fosse accelerare di decenni, pure di secoli, lo sviluppo della tecnica (facciamo per debellare un pericoloso virus), perché rischiare qualche vita umana dovrebbe essere un problema? O, per dirla con Larsson, “da dove viene questa etica?”.

Essere o non essere umani (foto Di Marco)

Santoni risponde alla suggestione citando due storici esperimenti di psicologia sociale, quello della prigione di Stanford (Zimbardo) e quello sull’autorità (Milgram); entrambi considerati – nonostante la comprovata inconsistenza scientifica – paradigmatici rispetto al mito di un’umanità dominata dai propri istinti, alla homo homini lupus.

Un’immagine che non rende giustizia a quella forza che, invece, tiene insieme le comunità umane malgrado tutto; e umane possono esserlo solo se viene salvaguardata la soggettività di ogni individuo, solo se l’eccezione vive insieme alla regola. Dopotutto, come ricorda il professore svedese, “se in fisica c’è un’eccezione alla teoria è un problema” poiché è quest’ultima che si deve adeguare ai fatti, non viceversa. Perché non si può dire lo stesso quando si parla di esseri umani? Se ognuno di noi è unico, perché si sente il bisogno di un’idea di umanità monolitica?

In effetti, si tratta di un problema di cui ciascuno può fare esperienza diretta. Basti pensare alla rappresentazione che ognuno ha di sé stesso: c’è continuità nella percezione – del nostro corpo, delle nostre idee, delle nostre emozioni –, ma ciò non vuol dire che siamo sempre uguali. Al contrario, perfino a livello cellulare, il nostro essere cambia totalmente e continuamente, si rinnova da cima a fondo, tanto nel corpo quanto nello spirito.

Forse perché, in fondo, l’essere umano è uno e plurimo; lo diceva Jung, quando paragonava la psiche a un arcipelago, ma anche i più moderni psicoanalisti relazionali, come Stephen Mitchell, secondo cui la coscienza sarebbe “una pia illusione”. E allora che fare di questa natura paradossale che ci ritroviamo? Dovremmo rigettarla in nome delle scienze “dure”, che si occupano di materia inerte, “inumana”? Solo perché è più difficile stare dietro alla complessità della vita? Ma cosa ci resta, se nemmeno proviamo a capirla, questa umanità?

Björn Larsson non demorde di certo: per uno scienziato-scrittore, tenere insieme gli opposti è la sfida di una vita. Anzi, proprio in virtù della sua doppia anima, afferma che una svolta nella comprensione di cosa significhi “essere o non essere umani” risieda nella possibilità di usare e comprendere i simboli. È grazie all’arbitrarietà dei simboli, infatti – le parole con cui comunichiamo, per esempio –, che siamo in grado di moltiplicare le realtà possibili; ed è sempre grazie ai simboli che possiamo usare l’immaginazione per umanizzare il mondo.

Ovviamente, questo non equivale a rigettare la realtà condivisa in nome di un relativismo assoluto (come testimoniano i vari complottismi odierni e non solo); piuttosto vuol dire credere che non abitiamo l’unico dei mondi possibili: significa avere fiducia nel cambiamento. Senza questa fiducia, che le cose siano diverse da come sono, non è possibile alcun futuro.

A due anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, mentre Gaza brucia – e gli oceani si alzano e le risorse diminuiscono –, abbiamo più che mai bisogno di questa fiducia. Ci serve una pistis, una fiduciosa lealtà alla nostra umanità, come contraltare a tutte le forze negatrici dell’umanità stessa; rinunciare a questa fiducia significa cedere all’idea che non esiste nessun mondo alternativo, che dobbiamo tenerci tutto così com’è “perché era destino”.

Ma un mondo simile, che non può cambiare, è condannato a vivere secondo ideali rigidi, fissati una volta per sempre, incompatibili con la vita stessa. E, sebbene un mondo del genere sia senz’altro possibile (è stato così fino a qualche miliardo di anni fa), lo stesso non si può dire della nostra anima: nella rigidità senza contraddizioni rischiamo di perdere noi stessi. Allora, se vogliamo sopravvivere alle forze cieche della natura, e come specie e come individui, dobbiamo scegliere: “essere o non essere umani”?

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