La transizione ecologica non devono pagarla i più deboli

Le conclusioni di compromesso dell’ultima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si prestano a differenti chiavi di lettura. Il parere dell’ambasciatore Grammenos Mastrojeni che ha partecipato ai lavori della COP28 di Dubai
(Chinatopix via AP)

Sono controverse le conclusioni della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) che si è svolta a Dubai. Il quadro generale, compreso dei dubbi, è stato esposto su cittanuova.it da Domenico Palermo. Durante i lavori avevamo già sentito l’ambasciatore Grammenos Mastrojeni per registrare le aspettative del Segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo e cioè di un’ istituzione intergovernativa che unisce i Paesi dell’Unione europea e 15 Paesi delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo.

L’intervista che segue cerca di mettere in evidenza il suo parere su scelte che si riveleranno decisive per le sorti del pianeta. Mastrojeni è autore di diversi testi scientifici e divulgativi. Nel 2023 Città Nuova ha pubblicato il suo libro intitolato Vola Italia. Una transizione per rendere l’Italia il Paese a più alta concentrazione mondiale di risorse.

Nonostante il giudizio parzialmente positivo della stampa mainstream esistono pareri fortemente contrari di alcuni esperti. Ad esempio, secondo il professor Livio De Santoli, docente universitario e presidente del Coordinamento delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica in Italia, l’incontro di Dubai rientra tra gli eventi da dimenticare.

Come sono andati i lavori della COP28 dottor Mastrojeni? Ci sono punti positivi di tale incontro?

Un compromesso, come sempre, accontenta chi vede il bicchiere mezzo pieno e indigna il partito del bicchiere mezzo vuoto. Non si è detto phase out (abbandono) e neanche phase down (graduale abbandono) di petrolio e carbone, ma è stata consacrata la necessità di “transitare” verso nuove soluzioni, anche eliminando i sussidi più distorsivi e disfunzionali e migliorando l’efficienza energetica – fare di più con meno – in tutti i settori.

Una lotta fino all’ultimo…

Che sarebbe stata una contesa era chiaro fin dal principio, e come ogni contesa, i combattenti avevano una strategia: non ci sono buoni e cattivi, solo interessi contrastanti ma che paiono onestamente leciti e giustificati dal punto di vista di chi li difende.

Da un lato i “petrolieri” in attacco, a sostenere che «se abbandoniamo i fossili si ritorna all’età della pietra». Ma la regione che ha espresso questa frase – per bocca del Presidente della COP – fino allo sviluppo della sua industria estrattiva viveva di magra agricoltura e pastorizia desertica e forse nel loro vissuto quelle parole hanno un significato diverso. Un appello sentito e potente in difesa della risorsa che ha segnato una svolta epocale per la penisola arabica. Forse non totalmente razionale, visto che il Max Planck Institute proietta che la penisola sarà inabitabile entro la fine del secolo se non si correggono decisamente le dinamiche climatiche. Ma, tant’è, «meglio un uovo oggi che una gallina domani» è un principio che inconsciamente ci muove tutti e dappertutto.

Chi si è trovato sul fronte opposto?

Un gruppo composito – la scienza, le nazioni più fragili, Paesi più ricchi ma schierati più o meno coerentemente per un necessario cambiamento – e i tanti autori individuali di un lavorio ormai trentennale per mettere sotto controllo la minaccia più esiziale dell’intera storia umana.

È questo esercito di chi ancora si ostina a credere che possiamo salvarci ha cercato di cavalcare a proprio favore l’impeto dell’avversario. Lo slancio in attacco del Paese ospite era partito molto forte: sbloccare i tanti e importanti processi bloccati da anni alle precedenti conferenze sul clima in tutti i settori diversi da quello energetico. Così, tutta l’influenza anche economica del mondo fossile si è dispiegata per un anno ottenendo progressi impensabili nel loss and damage – gli aiuti per i Paesi più fragili ed esposti, ma meno colpevoli –, nel varare finalmente una finanza climatica per l’adattamento, nello sdoganare e finanziare i nature based approaches, strategie fondamentali di protezione dell’ecosistema come miglior garante dell’equilibrio climatico. Alla fine si è raggiunto un equilibrio di compromesso, ma ci sono stati passi avanti.

Ritiene che anche la cattura e stoccaggio della Co2, prevista assieme al nucleare tra le fonti sostenibili, sia una tecnologia compatibile con la transizione energetica?

Carbon capture, nucleare, e altre tecnologie possono dare un contributo. E poco importa se alcune di queste sono strumentalizzate anche come viatico per proseguire e compensare attività inquinanti. Il vero problema è che non è questo il punto centrale.

L’ambiente è un problema di dignità, libertà e giustizia, non di pannelli solari. Affidarsi solo a tecnologie che introducono più efficienza, significa che vogliamo tenerci stretti un’economia che intossica di superfluo alcuni, lasciando nella precarietà troppi altri, solo con metodi più serrati per violentare un pianeta che invece ha distribuito le sue risorse in modo equo.

Quindi, agiamo senza capire che l’ambiente si degrada perché il polo ricco prolifera sulle economie di scala e deve correre sempre ad allargare le sue produzioni senza potersi permettere di rispettare giustizia e ambiente, lasciando escluso un polo povero che, a sua volta, non può permettersi di pensare al territorio perché nell’urgenza di oggi non c’è posto per occuparsi del domani.

Sembra che nessuno abbia letto la Laudato Sì – o forse non concordano – dove papa Francesco ci mette in guardia contro il paradigma tecnocratico. In altre parole: un’economia giusta strutturalmente rispetta l’ambiente e il rispetto dell’ambiente strutturalmente crea giustizia. Se capiamo questo, abbiamo la soluzione in tasca anche senza innovazioni forse rischiose.

Cosa ostacola concretamente l’interruzione degli incentivi pubblici alle fonti fossili? In che modo si potrebbe superare questo ostacolo?

L’impressione generale è che i famigerati sussidi siano regali oscuri di governi collusi ai già ricchi amici inquinatori, e forse in parte è così. Ma stiamo soprattutto parlando di sostegni sociali come quelli che appoggiano i nostri autotrasportatori. I “gilet gialli” che hanno messo a ferro e fuoco la Francia a causa di una tassa ecologica sul carburante lo dicevano così: «fra la fine del mondo e la fine del mese, mi preoccupa questo mese». Hanno torto? Questa sfida, reale, è coperta da un altro più ampio capitolo della questione climatica chiamato just transition: fare in modo che i costi del necessario cambiamento non ricadano sui più deboli. Per i sussidi meno trasparenti e motivati, invece, sarà necessario continuare la battaglia contro i favoritismi di ogni genere.

Come si spiega l’assegnazione della prossima COP29 in Azerbaijan nonostante il conflitto con l’Armenia e gli interessi evidenti nell’esportazione di gas?

Anche a causa dei veti sulle prime candidature a ospitare CoP29 per ragioni del tutto estranee alla crisi climatica, a Dubai per la prima volta si è aperta una CoP in cui nessuno sembrava volersi prendere la prossima “gatta da pelare”. Non c’è stata la corsa di molti a farsi avanti e la prospettiva era di un’ennesima edizione a Bonn, con tutto compresso, a partire dai tendoni bianchi piantati fra il nevischio nel parco della stanca sede dell’UNFCCC. Del resto, ospitare una COP sul Clima dà prestigio e influenza ma comporta uno sforzo logistico pesante e quindi se l’è presa il primo Paese che si è fatto avanti. Io aspetto finalmente una CoP in un piccolo Stato insulare – quella svolta a Bonn, in realtà apparteneva alle Fiji che tuttavia non avevano la necessaria logistica – dove i problemi si toccano. Oppure sulle ex sponde del lago Chad, che si è ristretto 18 volte in 40 anni. Intanto spero che sia sostanza e non retorica la COP30 già programmata in Amazzonia.

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