Israele attacca Gaza via terra

Le notizie che arrivano dal fronte nord della Striscia di Gaza parlano dell’entrata di centinaia di mezzi militari in territorio palestinese. Quali prospettive? Un giorno cupo
ph Lapresse

Ci siamo, le notizie provenienti dal nord della Striscia di Gaza sembrano confermare, a 21 giorni dal brutale attacco di Hamas contro Israele, l’inizio dell’offensiva di terra da parte dell’esercito della stella di Davide. I segni di vita dalla Striscia di Gaza, invece, sono quasi inesistenti: il blocco dell’elettricità e dell’approvvigionamento di gasolio ha portato fatalmente allo spegnimento delle comunicazioni da quella parte dei Territori palestinesi che è nel mirino dell’esercito israeliano. L’informazione corretta, che dovrebbe dare notizie dalle due parti in conflitto, attualmente è ridotta a una sola fonte, lo Stato di Israele e i grandi inviati che sono ai confini della Striscia di Gaza, ma che non sono ancora entrati nella Striscia, o non vogliono farlo, prima dell’attacco di Israele. Per non parlare della cyberwar, della guerra digitale, che inonda la Rete di false notizie, parzialmente vere o francamente inventate.

Oggi c’è solo da immaginare lo strazio, l’angoscia, la brutalità della vita di chi a Gaza ci è rimasto senza far parte attiva di Hamas. Presi tra due fuochi, tra la resistenza dei miliziani palestinesi – che non svelano particolari segreti dicendo che le installazioni dell’organizzazione palestinese hanno fatto del sottosuolo e dei “luoghi sensibili” la protezione dagli attacchi israeliani – e i soldati israeliani, gli abitanti di Gaza vivono in stato di disperazione. Le ultime telefonate con alcuni amici di Gaza sono state dominate da un fatalismo che sfiora l’abbandono alla deliquescenza: non si sa dove scappare, non si sa cosa mangiare, non si sa cosa bere, non si sa dove dormire qualche ora, non si sa se il minuto seguente si sarà ancora in vita, non si sa se i propri piccoli riusciranno ad essere protetti dai corpi dei genitori che, durante i bombardamenti, li stringono a sé, in un atto di protezione disperato e commovente.

Questa è la prima nota necessaria in questo momento, al di là delle analisi politiche: mettersi dalla parte delle vittime in questo momento preciso, nel proprio cuore, non potendo fare altro. Anche il giornalista più incallito non può stare zitto, cercare la necessaria equidistanza quando la morte aleggia: le ultime parole dei pochi reporter rimasti nella Striscia di Gaza non sono più reportage o corrispondenze da un Paese estero, ma semplicemente un appello alla vita contro la morte.

Rimarrà l’esercito dello Stato israeliano a Gaza? Probabilmente non lo farà (il dubbio è d’obbligo, la guerra è il regno della menzogna), tornerà indietro, per poi attaccare di nuovo, fino al momento in cui riterrà di avere sconfitto il nemico di Hamas. I moniti del presidente Biden non sembrano essere caduti nel vuoto, su questo preciso punto strategico, anche perché rimanere a lungo a Gaza vorrebbe dire esporsi agli attacchi di Hamas, che sicuramente ha mantenuto luoghi da cui può ancora nuocere. Senza considerare che vi sono ancora quasi 300 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas e dei suoi alleati. Non resterà, probabilmente, anche perché non vuol dare agli Hezbollah del nord e agli iraniani il pretesto di entrare in guerra, viste le loro dichiarazioni minacciose degli ultimi giorni.

La presenza Usa nella regione è ridiventata attiva, dopo qualche mese di silenzio, con raid aerei in Siria e un lavoro capillare di intelligence. Se Washington sembra volere appoggiare Israele nella sua offensiva, nello stesso tempo sembra farlo per essere più credibile agli occhi dei dirigenti di Tel Aviv nel chiedere di non eccedere nella violenza e nel non commettere errori che verrebbero poi pagati in modo grave, come già successo in passato, in particolare nella guerra con Hezbollah del 2006. Russia e Cina guardano da lontano, in questa guerra solo il terzo grande della politica mondiale può perdere.

Il campo palestinese, non tanto e non solo quello di Hamas – la comunicazione dello Stato di Israele continua ad aggiornare la lista dei dirigenti dell’organizzazione fatti fuori dai loro attacchi, un modo per dire all’opinione pubblica internazionale che la guerra non è contro i palestinesi ma contro un’organizzazione terroristica – è tramortito dagli attacchi di Israele. In patria ma anche fuori. A Jenin c’è chi vorrebe aprire anche il fronte orientale, dopo il fronte sud di Gaza e quello nord degli Hezbollah.

In varie città europee ieri si sono tenute manifestazioni sostanzialmente a favore della Palestina, non di Hamas, perché torni all’ordine del giorno la politica dei “due popoli, due Stati”, soluzione ormai nei fatti resa quasi impossibile dalla riduzione dei Territori palestinesi a un arcipelago di spazi disconnessi e privi di acqua e di fonti energetiche. Ma, come dice la stragrande maggioranza degli Stati che giocano un ruolo di primo piano nella scena pubblica, è l’unica soluzione possibile. Solo la comunità internazionale potrebbe “costringere” le parti ad accordarsi; ma sarà in ogni caso una trattativa lunga e “sanguinosa” per chi si troverebbe a vivere in una parte del territorio ceduta al nemico. Dal 1948 la storia della regione è una storia di migrazioni forzate, mai dimenticarlo.

In campo israeliano la soddisfazione di chi vede in qualche modo vendicate le offese del 7 ottobre, non è unanime, perché non mancano coloro che temono che la spirale della violenza aumenti ulteriormente, e che anche questo shabbat non rispettato, dopo quello del 7 ottobre, sia un segno infausto per il futuro.

Ma è un giorno cupo per tutti. Un giorno cupo per Israele, che risponde così agli attacchi di Hamas del 7 ottobre e alla débacle dei propri sistemi di difesa di quella giornata infame. Un giorno cupo per i palestinesi, non tanto per quelli di Hamas, che vedono ancora allontanarsi la prospettiva di un loro Stato e di una qualche esistenza potabile da vivere. Un giorno cupo per noi europei, che non riusciamo più a far ascoltare le nostre posizioni per la pace, e che rischiamo di veder ritornare la stagione degli atti terroristici. Un giorno cupo per la comunità internazionale che non riesce a imporre la tregua e nemmeno gli aiuti umanitari. Un giorno cupo per ogni persona che abbia in cuore la pace.

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