Se 240 mila euro sono pochi

Il CdA della Rai ha stabilito che i tetti ai compensi, anche degli “artisti” entri in vigore. Sperando che il ministero dell’Economia torni indietro. Ma cos’è un “servizio pubblico radiotelevisivo”?
Carlo Conti alla Presentazione dei Palinsesti Rai al Conservatorio di Milano. MILANO, 28 GIUGNO 2015. ANSA/MOURAD BALTI

Da tempo se ne parla, perché la questione non è di poco conto: può un servizio pubblico radiotelevisivo offrire compensi milionari alle star dello spettacolo e dell’informazione, da Conti alla Clerici, da Vespa a Santoro? Il ministero dell’Economia, azionista unico Rai assieme alla Siae, ha stabilito con la legge di riforma dell’editoria varata a novembre che compensi di massimo 240 mila euro debbano essere pagati a «dipendenti, collaboratori, consulenti». Nella formula non ci sono gli «artisti», ma nel dubbio il CdA Rai in via cautelativa ha supposto che in tale dicitura debbano essere compresi anche loro. Si aspetta in realtà il parere del ministero, che non è ancora arrivato.

La prospettiva è chiara: se questo è il tetto, coloro che guadagnano di più (94 persone in tutto) potrebbero passare alla concorrenza, e danneggiare seriamente la tv di Stato. Rischierebbero così di sparire le trasmissioni di Conti, di Fazio, di Vespa, di Santoro, della Clerici, di Insinna… Un depauperamento che fa temere, non solo agli “artisti” ma anche ai semplici dipendenti, un crollo della competitività dell’azienda e quindi conseguenze sull’occupazione. D’altra parte continuare a pagare cifre milionarie quando le famiglie fanno fatica ad arrivare a fine mese a non pochi sembra un’incongruenza dello Stato.

I partiti si schierano in ordine sparso, ma sono in gran parte d’accordo (a parole) nel porre un tetto ai compensi, perché la misura potrebbe apparire popolare: certo, le ragioni della posizione a favore del tetto sono diverse, perché i deputati di Berlusconi gongolano in previsione che Mediaset benefici dell’eventuale limite ai compensi, mentre i pentastellati (e tanti altri) da sempre sono su posizioni limitative.

Oggi difetta una riflessione approfondita su quel che vuol dire “servizio pubblico”. Nella fase monopolistica degli anni Sessanta e Settanta il senso della espressione era più chiara: solo lo Stato poteva in effetti offrire un servizio radiotelevisivo di qualità. Ma con l’arrivo di Mediaset, di Sky e degli altri network televisivi la definizione di “servizio pubblico” per la Rai è mutato radicalmente: ha senso raccogliere pubblicità? Ha senso proporre trasmissioni d’intrattenimento? Ha senso finanziare la fiction? Una trasmissione di cucina è servizio pubblico come lo è un documentario sulla tratta dei migranti? Un talk show politico può essere messo sullo stesso piano dei “pacchi” di Insinna? E quali sono le sfide di un’azienda statale nel pieno trionfo del digitale? E come “tenere assieme” un parco-giornalisti che comprende decine e decine di penne mediocri sponsorizzate dai partiti e centinaia di ottimi reporter senza tessera? Alla Rai ci sono “zone d’eccellenza” che andrebbero valorizzate, e altri feudi che invece andrebbero smantellati. Negli ultimi anni qualcosa s’è fatto, ma senza sapere che cosa intendiamo per “servizio pubblico” è difficile andare avanti.

A domanda complessa, la risposta non può che essere complessa. Ma bisogna capire ed evitare eccessi che non fanno bene a nessuno, tantomeno allo Stato.

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