“May B”, ovvero l’allegoria della vita

La trasposizione in teatro-danza di due testi dello scrittore Samuel Beckett, “Finale di partita” e “Aspettando Godot”, con personaggi ansiosi di immobilità spiati dalla coreografa Maguy Marin nei loro movimenti involontari, e da lei tradotti in altri movimenti che cercano il significato di sé stessi
Un momento dello spettacolo

Come si fa a rendere coreografico Samuel Beckett? Nessuno finora ha eguagliato quel capolavoro che è “May B”, la trasposizione in teatro-danza di Maguy Marin di due testi dell’irlandese: “Finale di partita” e “Aspettando Godot”, con i personaggi beckettiani ansiosi di immobilità spiati dalla coreografa nei loro movimenti involontari, e da lei tradotti in altri movimenti che cercano il significato di sé stessi.

Perché da sempre Marin, artefice di un mondo abitato dal senso del grottesco e dalla spregiudicatezza più gridata, cerca la verità e non la bellezza. Titolo-cult nato nell’81, “May B” ha fatto il giro del mondo. Ed ora ritorna (al Romaeuropa Festival) per confermare, ancora una volta, quanto attuale e intramontabile sia la sua scrittura, pur rivelando un eccesso di formalismo e di gioco espressionistico. È un mondo chiuso, soffocante, che condensa quel senso di obbligazione a vivere insieme, quel “dolore di esistere” tipico del teatro di Beckett, e motore di emozioni riconoscibili.

Dieci figure strette fra loro avanzano sbucando da una parete nera. Un piccolo universo di larve che strascicano i piedi, che si muovono a fatica come i noti ciechi della tela di Brueghel. Figure calcinate, malate, i corpi sfatti, grotteschi, macabri, con i volti sfigurati dal pesante trucco di farina e argilla. Come i danzatori del Butho giapponese, o come certi personaggi-manichini del “teatro della morte” di Tadeusz Kantor. Hanno gesti inconsulti, si spostano senza senso, mugolano suoni gutturali e incomprensibili, lanciano parole beffarde verso non si sa quali invisibili creature, dietro l’ordine perentorio di un fischietto assordante che si sentirà anche alla fine. “È finita, sta per finire, forse sta finendo”, dirà l’uomo dall’aria stupefatta, con la valigia, paralizzato nel vuoto illuminato da una luce che lentamente lo isola per poi spegnersi fino al buio su cui cala il sipario. Le stesse parole le avremo sentite all’inizio mentre, smarriti, si articolano sulla musica di Schubert. Cessate queste note inizia una stridula musica di fanfara clownesca al ritmo della quale questi fantocci allucinati, soli e in coppia, si scatenano in piccole aggressioni di gruppo, in provocazioni, pronti a tentare goffamente, come bambini, ma bambini terribilmente invecchiati, di divertirsi, di giocare, di stimolarsi. Quindi prendono a compiere azioni meccaniche e prive di desideri sulle note di un altro quartetto schubertiano. Azzardano una festa di compleanno, quello di una donna che giunge da una delle porte enigmatiche – il ricovero di anziani o manicomio da cui provengono – con una torta e con candeline. Poi la festa viene troncata bruscamente e il gruppo riprende le vuote e scalcinate valigie che si trascinano dietro per proseguire il viaggio che non si sa bene se è fuga o ricerca di un impossibile Godot.

Un lavoro superbo e sconvolgente, oggi più che mai, di raro equilibrio e coerenza, di enorme pregnanza espressiva ed emotiva, di sapienza drammaturgica, in cui la danza affannosa, furibonda, fa emergere con forza i temi dell’attesa vana, dell’esistenza impotente, della follia, della violenza e dell’emarginazione. L’allegoria della vita.

“May B”, coreografia Maguy Marin, costumi Louise Marin, luci Alexandre Béneteaud. Al Teatro Argentina per il festival Romaeuropa. In scena all'Arena del Sole di Bologna, il 20 ottobre, per Le vie dei festival.

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