Il successo di YouTube e Spotify

Nel 2016 i ricavi della musica digitale hanno superato per la prima volta nella storia quelli dei cd (anche se continua la seconda giovinezza dei vecchi dischi in vinile)

Stando agli ultimi dati, quest’anno le grandi piattaforme del web hanno distribuito all’industria musicale circa un miliardo di dollari. Una bella cifretta in tempi di vacche magre come questi: merito soprattutto della pubblicità oltreché dei download e degli abbonamenti. Vale a dire che il mercato della musica tende sempre più ad assomigliare a quello televisivo, anche se siamo appena all’inizio di una tendenza destinata a modificare ulteriormente tutti i comparti del settore. Molto, per esempio, è ancora da regolamentare per quel che riguarda i diritti d’autore, specie quelli dovuti a chi non gode di una popolarità e dunque di un impatto paragonabile a quello delle grandi star. Un gap di valore, come si dice in gergo tecnico, che penalizza gravemente artisti e produttori e del quale si sta già occupando l’Unione Europea.

I dati di YouTube sono comunque impressionanti: l’89% degli italiani ci transita regolarmente proprio per ascoltare/vedere musica. Quest’anno a dominare la scena con 240 milioni di visualizzazioni è stato Alvaro Soler con Sofia, seguito da Vorrei ma non posto di J-Ax e Fedez, e da Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi: tre classici tormentoni che i Millenials odierni hanno guardato/ascoltato, ma che non si sarebbero mai sognati di comprare.

Anche da Spotify ‒ sempre più leader mondiale dello streaming audio sul web – giungono annotazioni interessanti. Specie per quel che riguarda il fenomeno delle cosiddette playlist (un termine preso a prestito dal gergo radiofonico) che ci dice come la fruizione musicale di un tempo, ovvero l’ascolto di un album intero, sia ormai surclassata da quella di un’infinità di compilation virtuali, assemblate non più secondo precisi diktat discografici, ma dagli stessi utenti, che smontano e rimontano ogni offerta a seconda dei loro gusti; i più accaniti sono ovviamente giovani, tra i 15 e i 35 anni. E Spotify non s’è fatta certo pregare, mettendogliene a disposizione di già preparate a seconda delle esigenze più diverse: le hit mondiali del momento in successione, o i brani più ascoltati nazione per nazione, e ancora, passerelle per genere musicale o appositamente pensate per occasioni specifiche (relax, feste casalinghe, balli, ecc). C’è davvero solo l’imbarazzo della scelta.

Adele
Adele

Ma oggi più che mai i dati di Spotify riflettono anche la globalizzazione in corso: basti dire che più della metà delle canzoni più ascoltate in Italia sono le stesse più fruite a livello planetario. Un enorme jukebox postmoderno dominato dalle popstar, col risultato di omogenizzare ulteriormente il consumo musicale, e anche di restringere l’appeal della produzione nostrana, già zavorrata da una marginalità storica. È tuttavia curioso notare come, tranne rare eccezioni, gli artisti più ricchi non siano anche i più ascoltati. Questo non solo perché molti di loro – come Adele (nella foto) o Taylor Swift – hanno preferito non rendere disponibili i loro album all’ascolto in streaming, ma perché il denaro del web oggi arricchisce soprattutto i discografici, mentre molti protagonisti ormai ottengono i loro principali introiti più che dai dischi, da concerti, sponsorizzazioni, ospitate strapagate, e via incassando… Parliamo di cifre iperboliche: basti dire che sul trono di Paperone del music business 2016 c’è la succitata regina del country-pop Taylor Swift che secondo l’autorevole rivista Forbes quest’anno s’è messa in tasca la bellezza di 170 milioni di dollari.

 

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