Violata d’inverno la montagna assassina

Simone Moro ha realizzato uno dei più celebri “sogni proibiti” dell’alpinismo: scalare d'inverno la vetta del Nanga Parbat, la montagna “mangiauomini” che non si era ancora fatta raggiungere
Nanga Parbat

«Il Nanga Parbat è una delle montagne più ambite dell'Himalaya, e il più occidentale degli ottomila. Il suo massiccio, di dimensioni enormi, domina l’imponente gola del fiume Indo: è una visione impressionante e io rimasi alcuni minuti senza fiato quando mi trovai per la prima volta di fronte a quella forza della natura. Da qualunque lato si affronti il Nanga Parbat, ci si trova sempre di fronte a 4 mila metri di dislivello da superare, più che nella salita dell'Everest, tanto per fare un esempio». Con queste emblematiche espressioni, utili oggi a contestualizzare l’impresa di Moro, Hans Kammerlander apriva il racconto della sua storica salita al Nanga Parbat, nel celebre libro Malato di montagna.

 

Eppure dopo essersi spinto in passato su tre vette estreme da ottomila metri, il Makalu, il Gasherbrum II e il Shisha Pangma, l’alpinista bergamasco è riuscito a risalire in stagione invernale, lo scorso 26 Febbraio alle 15,37 locali (le 11,37 in Italia) la vetta ritenuta sostanzialmente “proibita”, capace di respingerlo già nel 2012 e nel 2014. Simone scrive così il proprio nome nella grande storia dell’alpinismo, essendo il primo al mondo a violare in inverno quella che era stata anche definita montagna assassina, essendosi portata via Gunther Messner nella discussa spedizione tedesca del 1970.

 

Partito il 6 dicembre alla volta di Islamabad, in Pakistan, Moro ha invece raggiunto la vetta di 8.126 metri di altitudine dopo due mesi e venti giorni insieme allo spagnolo Alex Txicon e al pakistano Ali Sadpara, percorrendo la via Kinshofer lungo la parete del Diamir. Una scalata resa possibile anche da condizioni climatiche praticamente ideali e forse imprescindibili: sole, assenza di vento e temperature più alte della media stagionale, alleate per un’impresa mai riuscita prima, ad una quota peraltro nota anche come “zona della morte”.

 

Sopra gli ottomila metri, affermò proprio Reinhold Messner, il “re degli ottomila” fratello dello sfortunato Gunther, l’ossigeno viene a tal punto a rarefarsi da rendere il sangue dell’organismo umano più denso, la respirazione difficoltosa, ed i neuroni a rischio letale: ogni movimento diventa faticosissimo, quasi le gambe pesassero dieci volte tanto rispetto al solito.

 

Altoatesino d’adozione, Moro segna anche un’altra “prima” storica: in genere, sia gli sherpa nepalesi che i cosiddetti “portatori” pakistani accompagnano gli alpinisti, i quali poi danno la scalata alla vetta. Stavolta un pakistano raggiunge il culmine dando di fatto un segnale di cambiamento alla stessa cultura locale, ponendosi non più da portatore ma da vere e proprie potenziale “guida”. Nel gruppo, senza riserve d’ossigeno né portatori, ma munito di corde fisse e in grado di allestire più i campi nel percorso, anche una donna, l’altoatesina Tamara Lunger, fermatasi sotto la vetta.

 

Da chiarire però la rinuncia, prima dell’attacco della vetta, dell'altro alpinista italiano che faceva parte della spedizione: Daniele Nardi. «Non ho alcun rammarico. Il mio modo di scalare si basa su un’etica solida, su valori, la vetta viene dopo – ha affermato lo scalatore laziale che ha lasciato il campo base per insanabili divergenze con i compagni di cordata –. La vetta la sento anche un po' mia – ha aggiunto comunque – anche perché ho attrezzato la via fino a 6.700 metri, ho portato le corde, la mia tenda è ancora lassù. I diverbi con Txicon? La questione sarà risolta in sede legale».

 

Il Nanga Parbat risulta la nona vetta più alta del mondo ed il suo soprannome locale, “la mangia uomini” o “montagna del diavolo”, è ben più noto del suo reale significato: “montagna nuda” in lingua Urdu. Gli abitanti della regione himalayana testimoniano infatti la sua storia drammatica e la percentuale di mortalità intorno al 30%, che supera anche il K2 ed è seconda solo all’Annapurna, altre due vette da ottomila metri che impongono enormi difficoltà tecniche. Prima di essere conquistata nel 1953, non in inverno, dall’austriaco Hermann Buhl, otto spedizioni avevano tentato la scalata provocando 31 morti. Di duecento persone circa che hanno di fatto tentato la scalata, quasi sessanta non sono mai tornate. Poi i fratelli Messner, pagando con l’amarissimo epilogo per il suddetto Gunther al ritorno, erano stati i primi a conquistare la cima dalla parete est, la Rupal, nel 1970, in stile alpino, senza ossigeno e portatori.

 

Inviolato d’inverno resta ora solo il K2, già tristemente noto per avere mietuto vittime d’estate, stagione nella quale la sua cima fu conquistata da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli in una storica spedizione del 1954, con l’aiuto di un giovane Walter Bonatti, incaricato di trasportare le bombole di ossigeno.

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons