Verdi non è Wagner

G.Verdi, Messa da requiem. Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano diretti da Daniel Baremboim.
Giuseppe Verdi

Un Requiem umano, terrorizzante, oscillante tra speranza (poca) e certezza di un nulla. Le sottolineature di Baremboim sul “nil”, certi “rallentati” perfino eccessivi nella marcia funebre del Lacrimosa – più “wagneriana” che verdiana –, gli scoppi tremendi del Dies irae e i brevi momenti di pace, esprimono una interpretazione della partitura sul versante di un dramma inesorabile. Il coro (bravissimo) che apre con un soffio è già implorante, grandioso,   capace di furiose esplosioni e di implorazioni dolenti, in una lettura teatrale, dove il sacro è ridotto al minimo (il Sanctus è retorico, poco ispirato).

Baremboim concepisce il Requiem come un’opera in atti, epica come un dramma wagneriano. È un rischio pericoloso con Verdi. Per quanto il direttore sia comunicativo col gesto, sappia estrarre sonorità raffinate dall’ottima orchestra, sembra mettere in difficoltà il quartetto dei solisti (alcuni come la Frittoli e Giordani appaiono un po’ usurati), puntando alla dilatazione dei tempi, evitando così la stringatezza verdiana. Certe sonorità degli ottoni, pur piacevoli, sono espanse al massimo e non aiutano il canto che, per Verdi, è fondamentale. Il Requiem non è una sinfonia con cantanti, ma una universale preghiera – laica finché si vuole – dell’umanità, che deve avere il tempo di esprimerla.

Applausi entusiastici del pubblico, perché l’orchestra e il coro sanno “cantare” alla grande. E, ovviamente, a Baremboim per il suo impegno. Ma ci saremmo aspettati di più.

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