Un’altra Giada

«Era stata mia alunna al corso d’italiano per ragazze uscite dalla tratta della prostituzione…»
donna africana

Per le vie di Ancona, la mia città, mi passano accanto donne, uomini, bambini stranieri: cosa vedere in essi, al di là del colore della pelle, del vestito più o meno diverso dal nostro? Mi viene spesso in mente il drammatico fenomeno della tratta delle ragazze provenienti dai Paesi africani, su cui si sono scritti libri e articoli.

 

Le discipline della sfera sociale lo pongono al centro dell’attenzione perché ci sono all’origine dinamiche complesse, dalle quali le infelici protagoniste si sentono irretite: le pressanti richieste di denaro della famiglia allargata rimasta nel villaggio, non sempre inconsapevole del triste destino a cui vanno incontro; le azioni di rappresaglia verso i familiari da parte di chi – spesso donne, esse stesse africane – organizza il turpe mercato, nel caso le ragazze decidano di uscire dalla tratta.

 

Un giorno chiederò ai responsabili della Caritas di Ancona quante richieste ricevono in un anno da parte di persone che si offrono per il volontariato. Non mi stupirei se fossero tante; se non lo sono è soltanto perché non si sa abbastanza quanti orizzonti l’esperienza in Caritas possa aprire.

 

L’altro giorno camminavo in fretta per i viali dell’ex ospedale psichiatrico, oggi Cras, tanto suggestivi, così immersi nel verde quanto carichi di antico dolore. Qualcuno mi chiama: è Giada. È stata mia alunna nel corso d’italiano tenuto alla Caritas per ragazze uscite dalla tratta della prostituzione, ad opera dell’associazione Free Woman.

Erano appena dieci: con Francesca e Luisa, mie compagne di volontariato, si rifletteva spesso sulla pochezza del numero rispetto alle migliaia che sono sulle strade, vittime della violenza maschile.

 

Tra tutte, Giada aveva una marcia in più: non era analfabeta come molte delle altre, povere creature sbattute da qualche sperduto villaggio nigeriano sulle strade di un Paese che si dice civile. Ricordo Giada a lezione due inverni fa, piccola e magra, china sui quaderni a scrivere e a riscrivere, per imparare correttamente una frase dopo l’altra; imbacuccata in berrettoni di lana, aveva sempre freddo; era molto motivata, sapeva che senza una buona conoscenza dell’italiano non avrebbe avuto possibilità di lavoro e quindi di riscatto.

 

Ho esitato a riconoscerla: è bella e ben vestita; cerca l’ufficio protesi; vado anch’io in quella direzione. Camminando, mi racconta: dopo i giorni nella casa di Free Woman e il corso di italiano, ottenuto il permesso di soggiorno con la decisiva assistenza delle operatrici dell’Associazione, ha trovato un lavoro e una casa presso un’anziana signora di cui è assistente; proprio per lei è oggi al Cras, per svolgere una pratica. Dunque Giada è capace di andare per uffici, di capire e di farsi capire, per poi riferire efficacemente alla signora che l’aspetta a casa. È un’altra Giada: è felice.

 

Vorrei chiederle di Judith, di Sara, di Marian, di Mireille, se anche loro si sono salvate: ma Giada ha fretta, a casa la signora l’aspetta e lei deve ancora passare dal supermercato per la spesa. Ci scambiamo i numeri dei nostri cellulari, ci abbracciamo; la seguo mentre si allontana, figurina sicura ed elegante. Le sono grata per questo incontro che mi ha riempito di gioia, come sono grata alla Caritas che mi permette di “vedere” chi mi passa accanto, al di là del colore della pelle, al di là del vestito.

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