Una riforma segnerebbe la svolta del Terzo Settore

Nel mezzo della crisi, solo le imprese sociali continuano a crescere attirando l’interesse dei grandi investitori privati. Rischi e opportunità di una modifica legislativa fortemente voluta dal governo Renzi
ministro Poletti

Con un tweet notturno del 13 maggio, il presidente del consiglio Renzi ha voluto onorare l’impegno, preso al festival del volontariato di Lucca, di avviare una riforma strutturale di quel “Terzo settore”. Sotto questo termine si raggruppa una vasta tipologia di attività portate avanti da soggetti che non sono imprese private tradizionali ma che non sono neppure espressione dello Stato. Diverse leggi hanno cercato in questi ultimi anni di regolare e incentivare un settore che non poteva trovare spazio nel codice civile scritto nel 1942, e per questo era richiesto un serio intervento normativo.

Negli incontri avvenuti presso il gruppo editoriale Vita non profit, lo staff del giovane presidente del consiglio ha dimostrato di conoscere la materia e lo stesso il ministro del lavoro Poletti che non è un giurista o un economista, ma proviene direttamente dalla presidenza dell’Alleanza delle cooperative: da qui il collegamento tra jobsact e riforma del terzo settore. 

 Impresa civile e capitalismo Assieme alla riforma del servizio civile e al nodo della disciplina fiscale, uno dei punti di forza del progetto del governo riguarda le imprese sociali le quali dimostrerebbero, secondo Renzi, «che capitalismo e solidarietà possono abbracciarsi in modo nuovo». 

Ma cosa sono queste imprese sociali? Seguendo le riflessioni di Stefano Zamagni, l’economista più autorevole sul campo, non si tratta di creare uno spazio per attività benefiche secondo il modello statunitense alla Rockefeller che separa, cioè, nettamente il mondo degli affari, con le sue regole spietate, da quello filantropico, che viene a sua volta finanziato e gestito dagli stessi soggetti che creano povertà e diseguaglianza.

Produce perciò effetti dirompenti il fatto di riconoscere l’impresa sociale, al di là della forma giuridica, come «impresa privata con finalità di interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi». Si tratta del modello originario dell’agire economico orientato al bene comune e, quindi, alla reciprocità in grado di contaminare l’intero sistema orientandolo a produrre beni e servizi etici. Una delle caratteristiche richieste all’impresa sociale è la gestione responsabile, trasparente, in grado di coinvolgere non solo i lavoratori ma tutti gli interessati alla attività. Insomma non si tratta di fare delle imprese di serie B in grado di intervenire laddove il settore pubblico non lo fa più.

I “capitali pazienti” delle multinazionali Il rischio che corre di fatto il sistema cooperativo, oltre alle organizzazioni criminali che usano anche questa forma per mimetizzarsi, è quello di coprire, sotto il manto della solidarietà, una struttura di potere orientata esclusivamente al profitto.  Ma l’impresa sociale, per essere realmente competitiva, non ha bisogno solo di rivedere l’applicazione della normativa del 2006 che la disciplina ma di attirare capitali e investimenti.

Nella riforma che sarà messa a punto, con la regia del sottosegretario Luigi Bobba, oltre a forzare l’obbligo di investire totalmente in azienda o per finalità sociali gli utili prodotti dall’impresa e remunerare, anche solo in parte, il capitale immesso da parte di investitori “pazienti”, nel senso che condividono il progetto e non sono attratti da vantaggi speculativi “mordi e fuggi”; si aprirà all’investimento di capitali esterni. Si stanzieranno inoltre fondi europei a favore dell’impresa sociale e tutto questo costituirà una forte attrazione per tanti nuovi soggetti che si accingono a scoprire un mondo che vede occupati ben 11 milioni di lavoratori nell’Unione europea (4,5 per cento della popolazione attiva) e che producono il 10 per cento del Pil. Un terzo di tutte le nuove imprese che nascono ogni anno in Paesi come Francia, Finlandia e Belgio sono imprese sociali.

Sotto l’impulso del governo britannico, guidato dal conservatore David Cameron, è stata lanciata una “task force” del G8 per favorire su larga scala il ricorso agli investimenti destinati ad imprese con finalità sociali.  L’ex ministro Giovanna Melandri è il rappresentante italiano di questo gruppo di lavoro internazionale, in quanto già presidente della Human Foundation (HF), un organizzazione che promuove «un capitalismo dal volto umano». Tra gli ambsciatori della HF troviamo, tra gli altri Banca Mediolanum, il gruppo Sorgenia di De Benedetti, il costruttore Silvano Toti, la fondazione Vodafone e quella Telecom, la Unicredit e la fondazione Cariplo. Nel vasto comitato consultivo internazionale siedono esponenti del mondo intellettuale e accademico assieme, ad esempio, ad una rappresentante della fondazione di Bill Gates, la figlia di Bob Kennedy che presiede la fondazione intitolata al padre, l’amministratore delegato dell’Enel. Secondo la Melandri da investitori del genere, disposti a «rendimenti al di sotto o in linea con il mercato», dovrebbero arrivare nei prossimi anni, tramite i “social bond”, cifre pari ad un trilione (mille miliardi) di dollari destinata a produrre effetti sociali positivi per rispondere alla «debolezza strutturale del welfare contemporaneo». Questo nuovo “ecosistema finanziario”, secondo la Melandri, contribuirebbe a difendere le conquiste dello stato sociale e a migliorare il servizio pubblico.

Le catene della filantropia Forti critiche arrivano dal mondo delle associazioni come Attac che richiedono risorse frutto di un cambiamento di gestione degli affari “ordinari” di queste società e non tanto di beneficienza. Anche la Goldman Sachs, una delle banche d’affari all’origine della crisi mondiale, investe nei “social bonds” ma non ha cambiato linea di politica finanziaria e continua a retribuire in maniera scandalosa i propri manager.  C’è da osservare inoltre che chi investe denari nelle imprese a forte impatto sociale vuole incidere nella gestione concreta e ciò crea altri dubbi, se dietro questa operazione si paventasse la privatizzazione di beni e servizi pubblici ora affidate al Terzo settore.

Importante quindi disciplinare, in questa riforma, l’impresa che non si può definire solo “no profit” (che si obbliga a destinare tutti gli utili a scopi di utilità generale) ma “not for profit” e cioè un’attività produttiva (ad esempio una falegnameria) che si pone come obiettivo principale il generare un impatto sociale positivo (ad esempio integrare ex detenuti) e che allo stesso tempo decide di distribuire parte degli utili tra associati e investitori. Un bel nodo da sciogliere. 

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