Una ricostruzione che parte dal lavoro

A due anni dal terremoto, la vera emergenza è quella occupazionale: intervista a Paolo Montesanti, direttore della Caritas diocesana.
L'Aquila

Sono trascorsi due anni dal sisma che devastò L’Aquila e vari paesi della provincia. La faticosa ricostruzione non è ancora ultimata e i giorni in chi si concluderà appaiono sempre più lontani. La gente ha costituito comitati civici per non essere dimenticata, mentre serpeggia tra tanti la paura che nulla potrà più tornare alla normalità. Ci sono però esempi che funzionano e la dedizione dei volontari che è rimasta alta, come in quei giorni di tragedia. Abbiamo raggiunto Paolo Montesanti, direttore della Caritas diocesana per fare il punto della situazione.

 

A due anni dal sisma, si parla di abbandono della città da parte delle istituzioni: come Caritas, che cosa fate e vedete sul territorio?

«Tutto ciò che facciamo è in coordinamento con Caritas italiana, in quanto frutto della colletta nazionale. Abbiamo attualmente sette progetti di animazione e accoglienza e di sostegno economico alle famiglie in difficoltà. La dimensione più drammatica oggi è proprio la sofferenza delle famiglie: secondo i dati riportati da Il Sole 24 ore, il tasso di default (non restituzione) dei prestiti verso le banche è salito al 4,7 per cento, più del doppio dell’indice nazionale, contro l’1,7 precedente al sisma. Alcune famiglie hanno visto mancare addirittura due stipendi, per cui diventa impossibile pagare un mutuo. Mutuo che spesso, ironia della sorte, è ripartito anche su case non ancora ricostruite: essendo scaduto il limite di legge, tutto è rimasto alla buona volontà delle banche. Stiamo portando avanti una battaglia anche su questo fronte. Abbiamo, infatti, dei volontari consulenti esperti in queste materie e che sono impegnati nella difesa bancaria e legale delle persone, che oltre ad aver perso tutto si trovano tartassate da telefonate e richieste di credito. Tanti di loro si sentono in colpa perché non riescono a saldare i debiti e questo genera una condizione psicologica di fallimento. Noi proviamo a sostenerli anche da questo punto di vista».

 

La ricostruzione rimane quindi lontana?

«Tutti parlano di ricostruzione, ma non è quello il punto. Piuttosto bisognerebbe affrontare l’emergenza lavorativa, per la quale nessuno ha ancora elaborato proposte concrete. E non è un problema che coinvolge solo i giovani, ma anche i quarantenni. Il rischio è quello di ricostruire tante case, in cui nessuno andrà ad abitare perché non se lo può permettere. I 19 centri che sono stati costruiti come soluzione abitativa temporanea, in brevissimo tempo, sono destinati a diventare una sistemazione permanente per molti. E se pensiamo che si tratta di città dormitorio, senza servizi adeguati, né trasporto pubblico, né ambulatori medici, il disagio è evidente, soprattutto nel caso degli anziani che non si possono muovere».

 

In quali altri modi si esprime questo disagio?

«Ad esempio l’alcolismo, soprattutto nei giovani, ma nei nostri centri d’ascolto vediamo passare famiglie con i bisogni più diversi. Purtroppo c’è scarsa percezione, da parte delle amministrazioni di ogni colore politico, di quali siano le reali necessità e di che cosa significhi la povertà improvvisa, cosa ben diversa da quella di chi si è sempre trovato in una situazione di indigenza».

  

La logica rimane quindi quella assistenziale?

«Al di là dell’emergenza immediatamente dopo il terremoto, in cui l’assistenza è una necessità, devo ammettere che anche come Caritas diocesana di l’Aquila a volte abbiamo sbagliato a non andare oltre questa logica. Però bisogna precisare che la Caritas italiana ha già realizzato quattro scuole, quattro centri di comunità  e altri dieci sono in via di progettazione, in questo modo si prova a dare una risposta più strutturata e di lungo termine ai bisogni del territorio. Del resto è ben noto che anche il nostro Comune non ha risorse sufficienti per sostenere le situazioni difficili. Noi abbiamo attinto anche a fondi propri, ma è letteralmente una goccia nel mare. Per cui sì, di fatto si sta ancora facendo assistenza».

  

Alla luce di questo, c’è ancora speranza nella gente?

«Noi cerchiamo soprattutto di testimoniare un atteggiamento resiliente e costruttivo, anche attraverso l’assistenza psicologica. La non-speranza è l’ultima conseguenza del sisma, che porta alla collera o alla tentazione di lasciarsi andare. Per noi quello che conta è cercare di “essere”, di reagire, altrimenti la città muore».

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