Un trattato per il dialogo interreligioso

Il Kaiciid, l'organismo inaugurato a Vienna per favorire il lavoro comune tra le principali religioni, è una forma di cooperazione internazionale tra Stati che assegnano anche alla spiritualità il compito di favorire la pace e la convivenza tra i popoli. Intervista a Vincenzo Buonomo, docente di diritto internazionale
Kaiciid inaugurazione

Un'organizzazione che faccia da collante e sia luogo di dialogo e di confronto tra le principali religioni: questo dovrebbe essere il Kaiciid, l'organismo voluto dal re dell'Arabia Saudita Abdullah Bin Abdulaziz, che in udienza dal papa, cinque anni fa, aveva proposto quest'idea e ne aveva ricevuto ampio incoraggiamento. Dopo l'attentato dell'11 settembre, in cui gran parte degli attentatori era di origine saudita, il re ha voluto offrire un segnale in controtendenza e dar vita a un percorso di conoscenza delle diverse fedi per contribuire a una pace realmente duratura. Abbiamo chiesto una valutazione a Vincenzo Buonomo, professore di Diritto internazionale alla Lateranense e membro della delegazione ufficiale del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che ha partecipato ai lavori di inaugurazione.

Esistono già vari centri che lavorano per il dialogo, quale specificità ha il Kaiciid?
«Questa è un'organizzazione intergovernativa composta da Stati e non da religioni e quindi è una forma di cooperazione internazionale che gli Stati hanno voluto realizzare per lo specifico settore delle religioni e delle culture. L'idea iniziale è stata del re dell'Arabia Saudita, che tra l'altro l'ha condivisa con Benedetto XVI nel corso di un'udienza, e l'idea è quella di avere una struttura permanente che possa risolvere l'impossibilità di parlare e riflettere tra le grandi religioni. Ulteriore caratteristica di questa nuova struttura è avere al suo interno rappresentanti delle diverse religioni che vengono nominati o indicati dagli stessi Stati che aderiscono all'organizzazione. C'è una struttura interna che si chiama Consiglio dei direttori che vede rappresentati l'ebraismo, l'induismo, il buddhismo, l'islam con un sunnita, uno sciita e un druso, e infine il cristianesimo, anch'esso con tre rappresentanti: un cattolico, un ortodosso e un anglicano per meglio esprimere i diversi approcci all'esperienza religiosa. Il merito è aver creato un dialogo permanente e strutturato tra Stati».

Quanti Stati al momento vi hanno aderito?
«Spagna, Austria e Arabia Saudita sono gli Stati fondatori e poi c'è la Santa Sede come osservatore fondatore e non come membro. Ci sono poi molte richieste di vari Paesi per  diventare membri che si stanno vagliando. Se fino ad oggi l'elemento religioso è stato elemento di conflitto e disturbo nelle relazioni internazionali pacifiche, questa organizzazione vuole mostrare che la religione è uno strumento che favorisce ponti, ragionamenti comuni, soluzioni dirette».

Non c'è invece il rischio dell'utilizzo della religione a fini politici? Tra gli Stati promotori c'è l'Arabia Saudita, dove il  connubio religione-politica è molto forte.
«Tra i Paesi fondatori uno solo è a maggioranza islamica, mentre la Spagna e l'Austria sono Paesi europei dove la distinzione tra elemento religioso e politico è già strutturata, non deve nascere. La finalità del centro è perseguire un dialogo che elimini i conflitti e le situazioni che potrebbero indurli. Gli Stati riconoscono che se le religioni non vengono considerate elemento di dialogo rischiano di diventare elemento di contrapposizione. Che ci possa essere un ritorno di uso politico della religione mi sembra improbabile, anche perché viviamo in un contesto dove l'elemento confessionale viene escluso. La struttura poi segue il diritto internazionale, che esclude l'elemento confessionale ma non quello religioso, che è parte integrante delle regole internazionali. Ci sono elementi diversi nell'approccio al problema ma importante è essere arrivati ad una visione unitaria su una religione capace di dialogo. Si parla qui di globalizzazione dell'elemento religioso».

Si sono espresse criticità su un progetto di dialogo finanziato dall'Arabia Saudita, Paese non noto per le sue aperture in questa direzione. Come interpretare questo segnale?
«È un'idea personale del sovrano dell'Arabia Saudita, condivisa nel 2007 con il papa, quando il sovrano venne ricevuto in udienza. All'interno di tanti Paesi a maggioranza musulmana esistono organizzazioni interne non governative che hanno come scopo il dialogo tra le religioni e le culture. Sia i sauditi presenti che gli iraniani che hanno negoziato il trattato provengono anche da questi centri, dove si è già maturata un'apertura. Il rischio è che quest'operazione appartenga alle élite e non al popolo, ma a mio parere questa strada va comunque percorsa. Non chiuederei la porta all'iniziativa solo per il timore che si possa usare l'lemento religioso in modo strumentare. Il centro porrà fine a un lungo dibattito sviluppatosi in Occidente sulla necessità di inglobare la religione nella cultura. Ora un trattato internazionale istituisce un'organizzazione dove c'è una distinzione tra religione e cultura e si useranno questi due elementi, secondo le regole internazionali, per contribuire all'unità della famiglia umana».

Come si articolerà nel concreto?
«Il 31 ottobre si è già riunito il Consiglio dei direttori, poi a Vienna c'è stata l'inaugurazione in un palazzo nel centro offerto dal governo. Ora il primo impegno è lavorare alla formazione al dialogo e assicurare la circolazione dei testi religiosi nei vari Paesi, perché fino ad oggi la libera circolazione dei libri base delle diverse religioni non è stata permessa ovunque. Si lavorerà alla formazione culturale soprattutto nelle aree dove lo sviluppo non è globale su tanti fronti, non solo economico ma anche culturale. Le strutture non funzionano da sole, molto dipende dagli uomini che dall'interno cercano di farle funzionare e dalla volontà delle persone che possono contribuire a livello diverso a realizzare le finalità del trattato. A dare un contributo in tal senso sono chiamati rappresentati degli Stati e delle ong perché non tutto si demandi ai capi. Ora aspettiamo la prova dei fatti».

Perché è stata scelta Vienna come sede?
«Questa città ospita vari organismi internazionali e il presidente austriaco ha voluto offrire una sede perché nel tempo ha visto risolversi proprio sul suo territorio i conflitti più esacerbati. Spera quindi che il luogo aiuti a trovare soluzioni a problemi comuni».
 

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