Un Macbeth grandioso

All'Opera di Roma rivive il dramma shakespeariano nella versione di Verdi con uno spettacolo curato da Muti e Stein
Macbeth di Muti

Quando si incontrano due artisti che amano dissossare “la parola” per comprenderne il senso più profondo, e qui poi è la parola musicale di uno come Verdi nel Macbeth scespiriano –  parlo del regista Peter Stein e del direttore Riccardo Muti – la possibilità che l’evento ci sia, e autentico, più che remota, è reale. È successo all’Opera di Roma.

 

L’opera verdiana è stata rappresentata secondo la versione riveduta dal musicista per l’Opèra parigina del 1865, ma Muti-Stein hanno preferito la conclusione del 1847 (la “prima” a Firenze), perché più coerente con un dramma che è quello del male e della sua forza seduttiva. Certo esso si mostra sotto le forme del potere, che non indietreggia di fronte all’omicidio, ma anche oggi il male appare dietro forme in apparenza più innocue, ma lo stesso tremende.

 

La tremendità del male è stata resa da Muti fin dal preludio dell’Opera e durante il corso con sconquassi terribili degli ottoni e delle percussioni che han fatto tremare il teatro, dando alla musica il senso voluto da Verdi: il male è catastrofe.

 

Se poi Peter Stein commenta, con nessuna alterazione del testo musicale  – segno di intelligenza finissima, al contrario di alcuni colleghi – la musica con invenzioni folgoranti (nella scena delle Apparizioni è un bambino che danzando sulle note leggere sveglia Macbeth dal sonno, nella “ripresa” del Brindisi, la Lady canta sul tavolo del banchetto, nella scena del sonnambulismo scompare attraverso la porta, icona pallida di morte), allora la direzione di Muti diventa ancor più sfolgorante.

 

Il coro del finale del prim’atto con la larga espansa melodia è un gemito immenso dell’orchestra che Muti incalza; nel “sonnambulismo” c’è un dolore nei violini primi , finissimo e acuto come una lama, nel brindisi la Lady “stacca “ le note come spilli acuminati, ferocissimi; nel coro degli esuli, l’acciaccatura dell’oboe è lenta come un lamento infinito dell’umanità: le danze, introdotte a sipario oscuro, preannunciano le stregonerie e nulla hanno di balletto, anzi…

 

Si potrebbe continuare, perché questa è l’opera verdiana più diretta Muti e le sorprese sono moltissime. Una per tutte: le streghe, fantocci alienati, con una musica che ricorda sabba padani, racconti emiliani – e non solo – di orchi, fantasie di bambini spaventati, che Verdi rende tragiche maschere dell’orrore.

 

La musica è dolorosissima, forse più che in ogni altra opera verdiana. A commentare l’inutilità della corsa al potere, cioè al male. Una lezione morale che la musica di Verdi esalta al massimo.

Lo spettacolo deve però molto anche ai costumi “giotteschi”, alle scenografie medievalmente essenziali, al coro superlativo, ed al cast. Difficile trovare oggi un soprano “drammatico di agilità” come Tatiana Serjan, che cesella, incanta, stride, acutizza suoni gradevoli e sgradevoli con una recitazione da grande attrice, una tessitura ampia, anche nelle note gravi, una perfezione tecnica unica.

 

È la Lady, senza le asprezze di una Callas. Insieme al bravissimo Macbeth di Dario Solari,  al chiaro Macduff di Antonio Poli hanno compiuto una esecuzione mirabile. Certo, Muti non lascia cast e coro un attimo tranquilli, ma dà gli attacchi, muove i l corpo a sottolineare colori, si alza e si siede, sempre in moto, con Verdi che è forse l’autore che ama di più. Il risultato, si vede. Trionfo nel teatro gremito.

 

Repliche fino a domenica 11.

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