Ultime luci sul Tevere

Si avvia ormai alla chiusura la kermesse romana. Tra i nuovi film presentati, "L'uomo che verrà", "Julie & Julia" e "Vision".

L’uomo che verrà

 

Guarda a La notte di san Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani il secondo film di Giorgio Diritti, ma senza l’elegia e la fantasiosa rievocazione di quella strage di guerra in Toscana. Qui siamo sull’Appennino emiliano, anno il 1943, tra tedeschi in ritirata, braccati dai partigiani e la vita secolare dei contadini sconvolta da una guerra né voluta né capita. A cinquant’anni, Diritti dirige un film che è una tragedia piena di pietà per tutti. Per i soldati di entrambe le parti, divenuti belve gli uni contro gli altri, la cui ferocia inutile il regista non assolve. La guerra è un assurdo, sempre. E poi gli innocenti, donne vecchi e soprattutto i bambini. E’ infatti attraverso l’occhio della piccola Martina, muta per un trauma doloroso, che Diritti guarda come dall’alto (non a caso spesso le riprese sono dall’alto e addirittura un contadino si salva nascondendosi tra le foglie su un albero) la guerra, dove non ci sono vinti e vincitori, ma solo persone che, nella loro purezza nativa – i contadini, appunto – non comprendono la violenza.

Sottraendosi alla facile retorica di sangue e uccisioni morbosamente descritte, come usa molto al cinema, il regista, che ama una luce dolorosamente grigia ed un dialetto oggi scomparso di pregnante verità, costringe lo spettatore ad un’ analisi cruda della violenza, alla ribellione per ogni strage, soffermandosi invece con amore sui giochi infantili, sulla rude tenerezza dei vecchi, sull’affetto tra gli sposi e la religione campestre di quei luoghi fino ad un momento prima incontaminati.

I bambini guardano gli orrori di cui son capaci i grandi. Gli occhi di Martina (la bravissima Greta Zuccheri Montanari) speso velati di tristezza, osservano tutto. Dal semplice  rapporto tra i genitori (Maya Sansa, molto “in parte” e Claudio Casadio), alla sorella estrosa (Alba Rohrwacher), dalla signora di città (Eleonora Mazzoni) al coro di personaggi piccoli e grandi che Diritti mette insieme, facendo sì che nessuno sfolgori sugli altri, ma si racconti la storia di una comunità sana e laboriosa a contatto con l’assurdo.

Ne nasce inevitabile una lezione di alta moralità. Diritti riscrive la storia come oggi si dovrebbe fare: con pietà ed un identico amore della verità. Finalmente, un lavoro italiano di vero cinema: pulito, essenziale, scarno ed anche, nelle stagioni più autunnali e invernali che estive, poetico. Una gran bella opera, da non perdere.

 

 

Julie & Julia

 

Gli americani, si sa, sanno scrivere le commedie. Questa poi, con una pimpante Maryl Streep che spadroneggia sullo schermo, quasi regalando una summa di tutte le sue doti mimiche e gigionesche, è semplice, brillante. Con quell’umorismo a volte caustico che nasconde, dietro una storiellina tranquilla, le sue punte acidule.

Julie, attrice e scrittrice demoralizzata da un lavoro impiegatizio frustrante, trentenne sposata al remissivo Eric, cerca uno scopo nella vita. Scopre la mitica autrice di ricette di cucina francese per donne americane senza servitù, Julia Child, a suoi tempi sposata ad un addetto d’ambasciata a Parigi. Due matrimoni in fondo riusciti, pur in contesti storici diversissimi. Ovviamente, la regista Nora Ephron non si interessa di politica, la sua  è una commedia dove ci si diverte, si gioisce a fare del cibo lo scopo della vita – lo spettatore è costretto a soffrire, vedendo sullo schermo portate raffinatissime…-, per scoprire alla fine che, cucina a parte, è la felicità fra marito e moglie quello che dà sugo al tutto. La Streep giganteggia, caricaturando la donna americana anni Cinquanta, ma Amy Adans (Julie) non le è da meno: aria furbetta da finta ingenua, sa quel che vuole e lo ottiene. E’ solo un divertissement questo film leggero, tanto (troppo?) parlato? Certamente. Ma la morale rispunta tra le pentole: chi la cerca, la trova la felicità. Magari in cucina. Salvando sé stessi e il matrimonio. Parola di Meryl Streep.

 

 

Vision

 

E’ sempre un rischio scrivere del passato con gli occhi del presente. Ci vuole equilibrio e attenzione a non strumentalizzare la storia. Margareth von Trotta raccontando di Ildegarda, monaca (santa) medievale, il pericolo l’ha corso e forse non scampato. Con una tecnica minimalista – il racconto si svolge prevalentemente nel monastero – attenta ai dettagli, alle sfumature psicologiche, con una ricostruzione scenografica e costumistica curata, ed un fotografia ricercata (che ricalca dipinti medievali), la regista narra una parte della vita della monaca, in convento dall’età di otto anni e diventata poi badessa, musicista, farmacista, letterata e soprattutto “visionaria”. Su quelle visioni raccontate e non mostrate, la regista non sembra curarsi di favorire la comprensione all’ignaro spettatore, inesperto di storia medievale, così che Ildegarda appare più una femminista ante litteram che si scontra con gli uomini (di chiesa, in particolare, tranne il papa) con un tantino di eccesso d’amore (pericoloso) per la figlia spirituale prediletta e senza una reale profonda religiosità: aspetto che forse era da approfondire, trattandosi di una monaca.

Il film che si conclude bruscamente con Ildegarda che lascia il convento per predicare, non è convincente. Nonostante la bravura dell’interprete, una algida Barbara Sukowa, il ritmo è a volte pesante, i dialoghi lunghi, ricchi di riferimenti storici che lo spettatore fatica a collegare fra loro. Il film risulta perciò didascalico, quasi più un lavoro per il teatro che per il cinema. E Ildegarda più una laica donna di cultura novecentesca che una mistica medievale.

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