Udine, il tempo del silenzio

Ha avuto grande eco mediatico l'omicidio di un pensionato avvenuto nel capoluogo friulano ad opera di due minorenni. Ma forse è arrivato il momento di tacere
Udine

Il tranquillo capoluogo friulano si è trovato, suo malgrado, al centro dell'attenzione mediatica dopo l'omicidio di Mirco Sacher, trovato morto in un campo fuori città domenica 7 aprile. Nella notte si costituiscono due quindicenni, ma la loro versione dei fatti è tutt'altro che convincente: dicono di aver reagito ad un tentativo di violenza sessuale, ma né sul loro corpo né su quello dell'uomo vengono trovati segni evidenti di colluttazione; raccontano di averlo chiamato per chiedergli un passaggio verso il centro, ma passano diverse ore con lui prima di dirigersi verso Udine; l'una afferma di aver pranzato con Sacher, l'altra no.

Insomma, ce n'è per la curiosità degli appassionati di cronaca nera; la gente si lancia in congetture, in città arrivano i corrispondenti delle testate nazionali, mentre quelle locali sfruttano le conoscenze personali di redattori e collaboratori per scoprire qualcosa di più. Gli inquirenti informano le testate sui nomi delle ragazze, che – in quanto minorenni – non vengono diffusi; tanto basta però per scatenare la ricerca sui loro profili Facebook, e prendere d'assalto parenti e conoscenti delle due.

Ad essere messo sotto la lente d'ingrandimento è però un intero quartiere, da cui proviene una delle ragazze: quello di via Riccardo Di Giusto, da alcuni soprannominato “Le vele di Udine”, un chiaro riferimento a Scampia. Una zona di casermoni popolari che, a dire il vero, non era nemmeno stato concepita male: grandi spazi verdi, piste ciclabili, larghi marciapiedi, strade rettilinee e spaziose. Ma negli anni sono andati a concentrarsi qui tante famiglie e single ai margini della società, vuoi per motivi economici che giudiziari. Si è così creato un mix esplosivo, tanto che una delle soluzioni adottate è stato di far alloggiare nella stessa zona anche i carabinieri del locale distaccamento. Non è quindi la prima volta che la zona finisce sotto i riflettori, vuoi per spaccio di droga, vuoi per episodi di violenza: un terreno fin troppo fertile per le strumentalizzazioni, e per la retorica più o meno vuota del “quartiere difficile” che tende a dipingere tutti gli abitanti come potenziali delinquenti.

 

Ed è così che alla sottoscritta arriva una chiamata da un giornale locale: si è saputo che una delle due ragazze è di quel quartiere, vorrebbero un articolo che faccia un quadro della situazione di quelle vie. Ricordo che il campanile è diventato un punto di riferimento per tanti, dato il notevole impegno sul fronte sociale che sia sacerdoti che laici stanno portando avanti: un seme di speranza in mezzo a queste vie. Cerco qualche contatto, ma invano. Anche in parrocchia sembra che il tradizionale via vai di gente – tra cui molti stranieri, anche non cristiani – che si ritrova lì per portare ciò che ha in più e metterlo a disposizione dei comparrocchiani che ne hanno bisogno, per chiedere ascolto nelle difficoltà o semplicemente per passare del tempo insieme, oggi ha lasciato spazio al silenzio: tutto sprangato. Pure la pazienza sembra essere al capolinea: riesco solo a raccogliere un invito: «Non ci prestiamo più a queste cose. Siamo stufi di strumentalizzazioni, di sentir dire che questo è un ghetto: le difficoltà del quartiere sono ben note, non c'è altro da dire. Adesso è il tempo del silenzio».

 

Forse hanno ragione alla parrocchia: davanti ad una storia ancora tutta da chiarire, a tre famiglie il cui dolore possiamo solo immaginare, a due quindicenni la cui vita sarà segnata per sempre comunque vadano le cose, ad un quartiere che domanda di non essere incasellato in maniera indiscriminata come zona buia della città, c'è solo da tacere. La verità dei fatti, si spera, verrà a galla, e saranno gli inquirenti a farlo: ma fino ad allora, ogni parola è di troppo. Anche questa, a volte, è informazione.

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