Tra i monasteri dell’isola di san Patrick

Il “momento di gloria” di un popolo, l’irlandese, senza l’apporto del quale il nostro mondo occidentale sarebbe impensabile
Isola di San Patrick

Chi si accinga a visitare l’Irlanda, terra disseminata di bellissimi monasteri e di innumerevoli altre testimonianze della fede cristiana del suo popolo, farebbe bene a informarsi preventivamente, purché lo trovi, su un libro interessantissimo di Thomas Cahill, saggista americano di fama internazionale: Come gli irlandesi salvarono la civiltà. «Mentre crollava l’impero romano – vi si legge –, e attraverso tutta l’Europa barbari sporchi e arruffati calavano sulle città romane saccheggiando i manufatti e bruciando i libri, gli irlandesi, che imparavano allora a leggere e scrivere, si prefissero l’arduo compito di ricopiare tutta la letteratura occidentale, tutto ciò che gli capitava tra le mani. Questi amanuensi servirono poi da intermediari nella trasmissione delle culture greco-romana e giudaico-cristiana alle tribù europee, appena queste ultime si furono insediate tra le macerie e le vigne devastate della civiltà che avevano sopraffatto. Senza questo servizio da parte degli amanuensi, tutto ciò che avvenne in seguito sarebbe stato impensabile. Senza la missione dei monaci irlandesi che da soli, dalle insenature e dalle valli del loro esilio, rifondarono la civiltà europea in tutto il continente, il mondo venuto dopo sarebbe stato completamente diverso».

Questo, in sintesi, l’argomento trattato dall’autore, la cui capacità, piuttosto rara fra gli storici, è stata di unire alla ricchezza e alla solidità delle informazioni una autentica vena narrativa. Egli ci fa rivivere il periodo più oscuro della storia europea, quella età di transizione che va dalla caduta dell’impero romano all’affermarsi di Carlo Magno. Un periodo in cui la stessa nozione di "cultura" venne radicalmente rielaborata, in entrambe le sue articolazioni fondamentali: la conservazione e la trasmissione del sapere.
Nessuno, prima di Cahill, aveva con tanta abbondanza d’argomenti messo in rilievo il ruolo svolto dall’lrlanda monastica in questo processo di trasformazione intellettuale. Di conseguenza la sua ha il sapore di una "storia mai sentita”, il cui carattere avventuroso è di forte impatto su chi legge.
Ma chi erano questi irlandesi di cui G. K. Chesterton scrisse «Sono gli uomini che Dio fece matti: tutte le loro guerre sono allegre, e tutte tristi le loro canzoni»? Un ramo di quell’albero celtico che, a partire dal 600 a.C., estese i suoi rami in tutta Europa fino a invadere il mondo greco nell’attuale Turchia, dando origine a popoli dai nomi diversi. La loro era una cultura analfabeta, seminomade, fondata sull’allevamento del bestiame e sulla pratica dello schiavismo. Piuttosto statica, per modificarla era necessario un intervento esterno. E qui Cahill passa a presentarci colui che cambiò i destini dell’isola: Patrick, san Patrizio, l’apostolo degli irlandesi.

Rapito sedicenne sulle coste della Britannia, dove era abituato agli agi e alla prevedibilità della civitas romana, era finito a pascolare gli armenti di un signorotto irlandese. Solo dopo anni di servitù poté recuperare la libertà e ritornare fra i suoi. Ma col pensiero riandava sempre alla terra del suo esilio. Ordinato sacerdote e vescovo, vi rimise piede nel 432, pronto ad affrontare i rischi e le fatiche dell’evangelizzazione.
Caso eccezionale, l’Irlanda fu l’unica terra in cui il cristianesimo venne introdotto senza spargimento di sangue. Patrick fondò dappertutto vescovati, monasteri e conventi, divenendo irlandese a tutti gli effetti.
Certo, le sue sole doti di spontaneità e calore umano, di coraggio, lealtà e generosità non potevano bastare a far convertire un popolo di ostinati come gli irlandesi. Determinante fu l’aver fatto leva su
alcuni aspetti caratteristici della loro cultura quali il coraggio, il misticismo naturale che li portava a credere nella sacralità del mondo.
Non solo, ma egli aveva compreso che il cristianesimo, «pur non essendo legato indissolubilmente al costume romano, non poteva sopravvivere senza l’istruzione romana. E così i primi cristiani irlandesi furono anche i primi irlandesi a saper leggere e scrivere».

I complessi monastici sorti «si trasformarono rapidamente nei primi nuclei abitati, in centri propulsori di una prosperità, estesa all’arte e agli studi, senza precedenti»: centri in cui, oltre a leggere i testi sacri, veniva letteralmente divorata tutta la letteratura pagana greca e latina che capitasse a tiro e cominciavano ad essere trascritte le tradizionali leggende orali, un’intera letteratura che altrimenti ci sarebbe del tutto ignota.
Risalgono a quest’epoca i libri stupendamente miniati, che costituiscono oggi il vanto di biblioteche inglesi, francesi, svizzere, tedesche, svedesi, italiane e perfino russe.
Dall’inizio del sesto secolo la mappa dell’Europa occidentale era stata irrimediabilmente alterata da ondate successive di barbari germanici, che avevano devastato ogni cosa al loro passaggio. In questo sfacelo tutte le grandi biblioteche erano scomparse. Unici custodi del sapere, grazie ai libri portati in salvo con sé, gli anacoreti e monaci rifugiatisi in Irlanda.

Ma a causa degli insediamenti pagani dei sassoni nell’Inghilterra del sud, l’isola era tagliata fuori dal continente. Occorreva «ricollegare l’Europa al suo stesso passato attraverso l’Irlanda degli scribi».
Questo passo fu opera di Columcille, il più degno figlio spirituale di san Patrick. Dopo aver fondato in Irlanda monasteri a tutto spiano, questa singolare figura di monaco-guerriero-umanista fu esiliato – era il 564 – a Iona, isola al largo della costa occidentale scozzese che divenne poi un trampolino di lancio per numerose nuove fondazioni, cominciando dalla terra di Scozia.
Ondate di suoi intrepidi figlioli – tra cui primeggiano Columbanus e Gall – si sparpagliarono allegramente in tutta Europa, fondando monasteri famosi, che col tempo sarebbero diventati città. Naturalmente, «ovunque andassero, gli irlandesi portarono con sé i loro libri, molti dei quali non erano stati più visti in Europa da secoli; e li portavano legati alla cintola come simbolo di trionfo, proprio come, nei tempi antichi, gli eroi irlandesi portavano legate alla cintura le teste dei loro nemici». 

Non contenti di ciò, intraprendevano – siamo alla fine del sesto secolo – un’invasione spirituale dell’lnghilterra, dove avventurieri pagani di origine germanica avevano invaso gli antichi territori cristianizzati della Britannia. Questo cristianesimo celtico era destinato alla fine a incontrare il più severo cristianesimo romano che avanzava in direzione opposta: quello diffuso da Agostino di Canterbury, inviato da papa Gregorio Magno e considerato l’apostolo d’Inghilterra.
«Alla seconda metà del settimo secolo, l’impulso missionario irlandese era al suo culmine, per giunta rafforzato da fresche ondate di missionari inglesi (…) Alla metà dell’ottavo secolo gran parte
della Frisia, della Sassonia, della Turingia e della Baviera, nonché parte della Danimarca, avevano ricevuto la Parola di Dio».
Con l’avvento di Carlomagno, prende l’avvio il primo Rinascimento dell’Europa medievale: una fioritura culturale dalla vita breve, iniziò tuttavia di un graduale risveglio dell’istruzione e degli studi nelle rare e povere scuole continentali superstiti.

Il più splendido germoglio di questa primavera europea fu ancora un irlandese: Giovanni Scoto Eriugena, il famoso pensatore emulo di Agostino e di Platone.
Ma intanto, nell’isola di Patrick, le grandi civitates monastiche cadevano una dopo l’altra davanti ai terribili vichinghi. Era la fine di un’era: «L’Irlanda non avrebbe mai più recuperato la leadership
culturale della civiltà europea. Era stata emarginata di nuovo. Ciò malgrado, la via irlandese era già diventata il lievito della civiltà medievale».
Nei secoli successivi l’isola, ormai colonia d’Inghilterra, divenne nazione-martire. Spopolata dalle carestie e dalle emigrazioni in massa, alla vigilia della prima guerra mondiale era ridotta alla stregua
di un paese del terzo mondo. «Saranno necessari i movimenti culturali e politici irlandesi del ventesimo secolo per restituire a questo popolo distrutto una parvenza della sua autostima».

La conclusione di questa carrellata attraverso i secoli suona come un monito. «La fine di Roma ci istruisce su ciò che avviene in modo inevitabile quando popolazioni impoverite e in rapida espansione, i cui costumi e valori sono compresi in debole misura, premono ai margini di una società ricca e organizzata».
Per Cahill, fiducioso proprio a motivo dell’esempio irlandese, il futuro della nostra civiltà «potrebbe germinare oggi non in una sala del consiglio di Londra o in un ufficio di Washington o in una
banca di Tokyo, ma in qualche angolo sconosciuto ai media, dove dei generosi esseri umani si impegnano ad amare i reietti in modo straordinario. (…) Se "noi" potremo salvarci, non sarà grazie ai romani – presi da Cahill a simbolo dei potenti che presumono di avere nelle mani i destini del mondo – ma ai santi».
 
1) Th. Cahill, Come gli irlandesi salvarono la civiltà, Fazi Editore, Roma 1977.
 
 

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