Thom Yorke e le regole di Spotify

Il leader dei Radiohead ritira i brani del suo album da solista dal servizio di musica di streaming on demand. Gli artisti vengono pagati troppo poco. Alcune riflessioni sulle costanti del mercato discografico, investito da rapidi cambiamenti
Thom Yorke

Thom Yorke, il frontman dei Radiohead, band britannica tra le più importanti del panorama rock mondiale degli ultimi vent’anni, ha da poco ritirato la sua musica da Spotify, il noto servizio musicale di streaming on demand (che permette cioè di ascoltare musica online a pagamento), ideato da Daniel Ek nel 2006. Non la musica dei Radiohead, ma il suo disco solista, The eraser, e il suo ultimo lavoro con la band Atoms For Peace, Amok.

Le sue ragioni le ha spiegate su Twitter: «Non fatevi ingannare, i nuovi artisti che scoprite su Spotify non vengono pagati». Sembra in effetti che gli artisti che propongono la propria musica su Spotify vengano pagati meno di 5 centesimi ad ascolto, che, conti alla mano, equivale a dire che un musicista ascoltato 200 mila volte arriva a guadagnare circa un migliaio di euro, roba da non coprire nemmeno le spese per la sala prove di una band di liceali alle prime armi.

Alle accuse di Yorke, Spotify risponde con un compassato comunicato stampa: «L'obiettivo di Spotify è fornire un servizio che piaccia agli utenti, che sia pagato dagli utenti, e che fornisca all'industria musicale il supporto finanziario necessario per investire in nuovi talenti».

Spotify è un servizio che guadagna dalla pubblicità e dagli abbonamenti di chi vuole ascoltare musica legalmente senza interruzioni pubblicitarie (a chi non si abbona tocca invece tutto carosello). I clienti di Spotify sono oggi circa 24 milioni nel mondo, gli abbonati un quarto del totale. Nonostante questi numeri, sembra (la società non comunica dati) che il servizio svedese abbia avuto nel 2011 un passivo di circa 59 milioni di euro e che per ogni dollaro guadagnato negli Usa, solo per fare un esempio, abbia versato 98 centesimi di diritti nelle casse delle case discografiche. Ma il successo di un servizio del genere si costruisce col tempo, dicono gli esperti, e con la progressiva penetrazione nel mercato.

L’attacco di Yorke fornisce un impulso importante per alimentare la discussione su un mercato, come è quello discografico, in crisi e in fase di ristrutturazione, ma pare non tenere in considerazione una serie di elementi. Innanzitutto che è dai tempi del vinile, delle musicassette o dei cd (e probabilmente anche da prima) che gli artisti non affermati fanno fatica. Nessun musicista, scrittore, pittore o creativo che non si sia imposto sul mercato mainstream è mai riuscito (in tempi moderni ed escludendo scelte di vita non convenzionali) a vivere esclusivamente della propria arte. Si fa fatica oggi e si faceva fatica ieri. C’è poi da considerare che le tecnologie digitali hanno, nel recente passato, messo in ginocchio un business fino a qualche anno fa in salute come quello della musica e che un servizio come Spotify, seppure con molti limiti, ha avuto la forza di modificare la percezione degli utenti al punto da convincerli del fatto che sia giusto e necessario pagare per ascoltare musica perché la musica costa. Costa produrla, costa commercializzarla e costa promuoverla.

Spotify non paga adeguatamente gli artisti emergenti, ma gli concede una vetrina. In molti si sono però accorti che troppo spesso questa vetrina non è sufficiente. Perché? Perché l’alchimia che è alla base di un successo commerciale, o anche solo di un buon prodotto musicale e creativo in genere, è fatta di artisti, ma anche di manager, pubblicitari, grafici, comunicatori, commerciali… La storia del gruppo che sfonda con la sola forza del proprio blog e della pagina Myspace (vedi gli Artic Monckey per fare un esempio tra i più celebri) esiste, ma è l’eccezione buona per qualche titolo di giornale, non la normalità.

Nigel Godrich, storico produttore dei Radiohead scrive: «Se la gente, nel 1973, avesse ascoltato i Pink Floyd su Spotify piuttosto che comprare il disco, dubito che avrebbero potuto realizzare The dark side of the moon. Sarebbe stato troppo costoso».

Può darsi, ma The dark side of the moon è pur sempre l’ottavo album in studio dei Pink Floyd e non sono certo che i produttori della band avrebbero accordato capitali milionari a un gruppo esordiente e senza nessuna esperienza, né sono convinto che quel capolavoro che è The dark side of the moon avrebbe venduto 50 milioni di dischi senza avere alle spalle una produzione e una distribuzione all’altezza, come era allora la Capitol.

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