Terrorismo nel deserto

Il conflitto aperto con l’intervento francese in Mali rischia di allargarsi a tutta la regione sahariana. La necessità di un discernimento lungimirante
profughi mali

L’attacco sferrato da alcune milizie islamiste provenienti dalla Libia ad In Aménas, grande centro di estrazione di gas naturale sotto il controllo della British Petroleum, proprio alla frontiera tra Algeria e Libia, ha gettato nel panico la diplomazia internazionale. E d’improvviso ci si è resi conto della gravità della situazione militare. Ma non solo. L’attacco algerino contro il commando guidato da Mokhtar Belmokhtar e dai suoi miliziani è stato dettato in primo luogo dalla volontà di far capire ai qaedisti (o piuttosto ai miliziani islamisti di diverse fazioni operanti nella zona) che in Algeria non c’è spazio per loro, e che non verranno tollerati attacchi contro le installazioni di estrazione di gas e di petrolio, la sola vera ricchezza del Paese maghrebino.

Ora il rischio di contagio del conflitto maliano nella vastissima regione sahariana è reale, tanto più che alcune frange qaediste si sono saldate con le ben note aspirazioni indipendentiste del popolo tuareg. Sul tavolo non può non essere messa la nuova “malattia” della diplomazia internazionale, in particolare quell’impulsività che sembra aver determinato l’intervento militare in Libia ed ora quello in Mali. Non si discute la gravità della situazione, il fatto che in Libia governava un dittatore sanguinario e che in Mali i radicali islamisti avevano occupato metà del territorio nazionale, minacciando la capitale e la stessa democrazia, fragilissima, presente nel Paese. Ma gli interventi militari, pur “garantiti” da risoluzioni Onu, sono apparsi più il frutto di impulsi nazionalistici francesi ed inglesi che di una concertazione adeguata alla gravità della situazione. Soprattutto, appare evidente come le conseguenze di tali interventi non fossero state previste.

E ciò nonostante la lezione irachena. Che indica come l’abbattimento di un pericoloso dittatore, che aveva creato un suo equilibrio, non porta necessariamente a un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, scatenando al contrario violenti rigurgiti terroristici. La destabilizzazione libica certamente non spiega in toto la penetrazione della confusa e vaga galassia qaedista nel Sahara, ma certamente non ha favorito una stabilizzazione della regione. Senza dimenticare il bubbone somalo, che anche nel deserto fa sentire le sue nefaste influenze, veicolate attraverso i flussi migratori clandestini dalla regione del Corno d’Africa verso il Mediterraneo.

E non va dimenticato che in queste precipitose decisioni d’intervento pesano, come sempre, questioni interne di popolarità dei leader e di coesione governativa. Serve ponderazione, in questi frangenti, e anche quella saggezza politica che preferisce le armi della cooperazione e del sostegno economico, culturale e sociale a quelle da fuoco.

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