Sulle note di Prince

Sui muri e sulle strade di Minneapolis è scritta la storia della musica e dell'arte contemporanea

È l’unica dorata. Spicca in mezzo a quelle argentee con i nomi di Nirvana, U2, Aerosmith. Sulle pareti curve e cupe del First Avenue club, la stella di Prince è il sole attorno a cui ruotano gli astri della storia del rock, del funk, del jazz, del blues. Non c’è star del firmamento musicale internazionale che non si sia esibita almeno una volta a Minneapolis, la città sul Mississippi che divide con la gemella Saint Paul il titolo di capitale del Minnesota. Saint Paul lo è di diritto, Minneapolis con la sua City popolata di magnati e affaristi lo è di fatto. Il principe della musica nera è nato qui e in questa stazione dei bus anni ’30, diventata un laboratorio di sperimentazione per band emergenti, ha suonato ai suoi esordi. Paul Simon, Sinead o’Connor, Ray Charles, Patty Smith, i Depeche Mode, i Cold play sono alcune delle 531 stelle d’argento che hanno calcato questo palco e sono state immortalate sulle mura. Prince ha voluto ambientare in questo regno del ritmo alcune scene del film premio Oscar Purple Rain (Pioggia viola) e ora questo cenacolo dell’arte ricambia tributandogli una stella d’oro tra fiori, pupazzi, foto e versi che centinaia di fan dedicano a questo folletto triste, morto il 21 aprile 2016 in uno degli ascensori di Paisley Park, la residenza dove lavorava e viveva alle porte di Minneapolis.

Il suono di Minneapolis e Snoopy

Guardando agli edifici art decò di travertino rosso che sfidano vetro e acciaio dei grattacieli, sembra im­possibile pensare che questa cittadina sia diventata negli anni ’80 la culla del cosiddetto “Minneapolis sound” e non solo per Prince. Persino un insospettabile come Charles Schulz, il creatore dei Peanuts, ha radici tra queste case anche se è Saint Paul a dedicargli un giardino con le statue in bronzo di Charlie Brown, Snoopy, Lucy. Sempre su queste stesse strade, negli anni ’20 spopolavano i gangster del proibizionismo che ispirarono a Francis Scott Fitzgerald, anche lui della zona, il romanzo Il grande Gatsby. Minneapolis è un covo di sorprese. Aggirandomi per la Hennepin Avenue, il distretto artistico, mi trovo circondata di teatri: il Capri, dove un Prince adolescente recitò e suonò da solista; lo State theater e le sue colonne rinascimentali dove dei cartelli rossi invitano gli spettatori a non portare armi: anche questa è la provincia americana; e infine il famosissimo Orpheum, un pezzetto di Broadway in un territorio che proprio con la Broadway di New York si gioca il primato dei posti in platea. La galassia culturale di Minneapolis è fatta anche da librerie, biblioteche, musei, gallerie e atelier che ne fanno la città più colta degli Usa.

I dischi in vinile e Dylan

Una guida turistica ci offre un tour nei luoghi di Prince, ma io prefe­risco respirare quest’aria sonnacchiosa e rampante che ha legato il suo genio a questa terra di laghi – ce ne sono almeno 20 – e foreste. Voglio calpestare le sue stesse vie, quelle sudate in sella alla bicicletta con cui il Principe faceva shopping, correva ai caffè, si dilettava nei parchi. Quando un giornalista gli chiese perché non avesse lasciato Minneapolis, Prince rispose: «Credo che Dio ti metta in un luogo e si suppone che tu stia lì e che dovresti anche rimanerci ed è per questo che sono rimasto». E rimanendo è diventato anche l’icona civile di questa città, dando prova che la cultura e la musica non sono solo “roba per Los Angeles o New York”. Sbirciando nella vetrina del suo negozio di dischi preferito, Electric Fetus, scopro il Prince inedito, quello impegnato nei sindacati a favore degli artisti emergenti e quello che aveva deciso di cedere i diritti di distribuzione alle grandi case discografiche, solo dopo due settimane di vendite esclusive in questo suo personale museo del vinile, zeppo di 33 e 45 giri: era il suo modo per aiutare i proprietari del locale. Sulle vetrine all’incrocio tra la 5a e la Hennepin Avenue si riflette una gigantografia di Bob Dylan, anche lui figlio del Minnesota, ma poeta del folk. Il murales di 18 metri per 150 lo ritrae in bianco e nero da giovane, nella sua maturità e nel suo presente, dentro un caleidoscopio di colori su cui spicca il titolo della canzone The time they are a-changin (i tempi stanno cambiando), scritta nel 1963 quando il movimento dei diritti civili contro la segregazione razziale riempiva le strade del Paese. L’autore di quest’opera d’arte è Kobra, un artista brasiliano che per tre mesi ha vissuto Minneapolis come «una grande comunità artistica, intenzionata a fare la storia». I murales ne sono la rivelazione sbalorditiva perché se ne contano a decine. Raccontano una Venezia sbiadita e un Prince viola, riproducono la lavorazione del cotone e scene di commercio nel deserto, documentano l’intreccio delle razze e il mescolamento degli stili musicali. In pochi metri ne ho contati 12, ma a censirli tutti nessuno pensa.

Il ponte incompiuto sul Mississippi

Il sole è accecante e l’umidità del “grande fangoso”, il Mississippi, ti si incolla alla pelle. Il fiume si slancia rapido verso le cascate di Saint Antony, battezzate nel 1683 dal religioso cattolico Louis Hennepin che per primo esplorò la zona. Lo attraversano ponti sospesi in cemento e ponti ferroviari in ferro battuto, segni della prima colonizzazione della frontiera. Sull’altra ansa le acque grigio-marroni avvolgono tranquille le chiatte e i battelli che vi sonnecchiano in attesa di carichi e di turisti. Le rive erano popolate da mulini e da vecchi stabilimenti per la lavorazione di cereali, ma oggi hanno perso l’attivismo operaio per diventare residenze di artisti e musei. Proprio a strapiombo sulle cascate si erge l’Endless bridge, il ponte incompiuto, una passerella di 50 metri, collegata al teatro Guthrie che si spinge nel vuoto fino a un’altezza di 178 metri. Dalle vetrate blu e gialle si può ammirare l’intera Minneapolis colorata dagli effetti ottici degli specchi, ma uscendo all’esterno il fiume e la città, gelosi, si riprendono i propri colori. Non ci è dato sapere quante volte Prince si sia affacciato da questa terrazza, né se sia stato tra gli spettatori di questo proscenio blu a forma di silos, qui la frequentazione con gli artisti non è l’eccezione ma vita quotidiana e io stessa mi trovo a curiosare nelle sale prove senza che gli attori si infastidiscano. Sul taxi diretta all’aeroporto mi volto per un ultimo addio all’arte nascosta e famosa di Minneapolis, al viola della lavanda delle aiuole e a quello delle insegne di ospedale e università. Ed ecco che al 515 della First Avenue, da dove tutto è partito, mi scorre accanto l’ennesimo murales cartolina in cui è immortalato un notturno della città dai ponti sul Mississippi. La scritta bianca sullo sfondo, recita: «Tu sei l’artista e la vita è la tua tela. Saluti da Minneapolis». La magia è compiuta. Minneapolis ha stregato anche me e l’addio sulle labbra diventa un atteso arrivederci.

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