Storia di un bambino rifugiato

Walid è il suo nome. Non è una vittima che chiede compassione ma un uomo libero che ha molto da offrire al fortunato Paese che lo vorrà ospitare.

Ho conosciuto Walid a Beirut l’anno scorso. Ha 27 anni e la sua più grande speranza è di trovare un posto dove andare a vivere. Con la sua famiglia hanno lasciato la loro città di origine quando lui aveva poco più di 3 anni. Da allora, di anni ne sono passati quasi 25, ma sono ancora in giro per il Medio Oriente. Per fortuna, l’anno scorso una sorella sposata ha potuto legalmente trasferirsi in un grande Paese occidentale, e la famiglia spera di poterla un giorno raggiungere nello stesso paese. Finora non è stato ancora possibile. Non è un caso particolarmente sfortunato, soprattutto tra i profughi e rifugiati iracheni. È una storia che, almeno raccontata da lui, sembra molto normale. Parlava in arabo, ma si esprime più che discretamente in inglese. È una persona aperta, solare. Non è una vittima che chiede compassione ma un uomo libero che ha molto da offrire al fortunato Paese che lo vorrà ospitare.

Sono nato in una cittadina a 150 Km a nordest di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, a poche decine di chilometri sia dal confine siriano che da quello turco, meno di 80 chilometri da Mosul. È una regione ricca di acqua e di verde, a 500 metri sul livello del mare. Io ero piccolo, avevo 3 anni quando c’è stata l’invasione del Kuwait e la prima guerra del Golfo. È scoppiata in quel momento anche una rivoluzione nella zona curda, per ottenere l’autonomia. Mio padre era militare, allora, ed era pericoloso per noi restare lì, anche perché noi siamo cristiani. Nella zona i cristiani erano una piccola minoranza ricca di antichissime tradizioni: caldei, siriaci, assiri, armeni (ortodossi e cattolici) e un piccolo numero di evangelici. La maggioranza della gente era sunnita ma anche sciita. E poi c’erano gli yazidi.

Quanto tempo siete rimasti a Baghdad dopo la guerra?

Finita la guerra, nel 1991, la mia famiglia ha deciso di vendere la nostra casa al Nord e con i soldi comprarne una più grande a Baghdad, dove si è trasferita tutta la famiglia. Ci siamo riusciti appena in tempo, perché con l’embargo che è seguito alla guerra, in Iraq è cresciuta in modo rapido la povertà. La situazione è diventata sempre più difficile, e questo ha provocato l’aumento dei crimini, e in particolare dei furti. Ero piccolo ma ricordo molto bene l’assalto armato ad una casa accanto alla nostra per rubare tutto quello che si poteva trovare. Io avevo 8 anni e mio padre faceva il tassista. Ogni sera parcheggiava l’auto molto accostata al muro di casa e poi toglieva le due ruote esterne, quelle non protette dal muro, per evitare che venisse rubata la macchina o anche solo le ruote, che sarebbe poi stato impossibile ricomprare. Le rimetteva al mattino quando usciva per andare al lavoro. Quando uscivamo tutti di casa, in auto, papà ci faceva stare tutti accucciati (anche mamma e i nonni oltre a noi figli), in modo che da fuori si vedesse solo lui, alla guida. Per evitare di informare eventuali ladri sul fatto che la casa era incustodita. Era una situazione dura ed era sempre più difficile trovare qualcosa da mangiare, per non parlare del resto che è necessario per vivere. C’erano dei morti, spesso ne trovavamo anche per strada, in quel periodo. Nella primavera del 1995 il nonno ci ha proposto di lasciare tutti il Paese, e papà ha acconsentito. In tre mesi abbiamo venduto casa, auto, mobili, tutto. Il nonno, la nonna e due zii sono partiti per la Turchia, dove sono passati clandestinamente in Grecia, sperando di trovare rifugio in Europa. Sono rimasti però in Grecia per più di 10 anni, sempre come clandestini.

Quindi con la tua famiglia non li avete raggiunti. Cosa avete fatto?

Papà e mamma non se la sentivano di imbarcarsi in un viaggio nell’illegalità, soprattutto per non compromettere la scuola e il futuro di noi figli, mia sorella ed io. E ci siamo rifugiati in Giordania. Ma abbiamo scoperto presto che lì gli stranieri rifugiati, a quel tempo, potevano solo frequentare le scuole private, che sono costosissime. Così io e mia sorella abbiamo perso un anno di scuola. L’anno dopo però il re ha consentito ai rifugiati di frequentare le scuole pubbliche, così ho potuto andare a scuola per quasi cinque anni, fino al 2002, quando avevo 15 anni. Nella nostra scuola c’era comunque molta discriminazione verso i rifugiati iracheni, soprattutto se cristiani. Un giorno dei compagni giordani mi hanno preso da parte e mi hanno detto: «Noi odiamo gli ebrei. Tu li odi?». «Io non odio nessuno – ho risposto –, la mia famiglia mi ha insegnato a non odiare mai nessuno». Non hanno capito e mi hanno denunciato all’insegnante come amico degli ebrei. Lei mi ha chiamato e mi ha punito picchiandomi sulle mani con una bacchetta di legno. Intanto la situazione si era fatta di nuovo dura per noi e non c’era lavoro sufficiente. Così nel 2002 ho dovuto lasciare la scuola e per quattro anni ho lavorato da un parrucchiere. Prima come aiutante, poi ho imparato a tagliare i capelli e sono diventato bravo nel mio lavoro. Anche se potevamo vivere un po’ meglio, siamo diventati ben presto illegali, perché non potevamo permetterci di pagare 600 dollari l’anno a persona per essere in regola con i permessi.

Quando sei diventato maggiorenne cosa è successo?

Nel 2006, tre anni dopo la seconda guerra del golfo e la caduta del regime in Iraq, abbiamo deciso di tornare nel nostro Paese. Sapevamo bene che andando via dalla Giordania di nascosto facevamo terra bruciata alle nostre spalle, perché non avremmo mai più potuto tornare, non avendo pagato le tasse di soggiorno. In Iraq la situazione era un po’ migliorata, e sono tornati anche i nonni e gli zii dalla Grecia, dove erano stati 10 anni come clandestini. Siamo rimasti un anno a Baghdad, dove però c’era poco lavoro e mancavano spesso acqua e luce e le strade erano tutte dissestate. Così nel 2007 ci siamo trasferiti in un villaggio cristiano al Nord, in una vecchia casa che era di proprietà del nonno. Io e papà abbiamo trovato lavoro in un deposito di alcoolici: papà come autista e io come magazziniere.

Ma anche questa situazione non poteva durare. Venditori di alcoolici in un Paese islamico!

Infatti quattro anni dopo quel deposito verrà incendiato per incitamento di un imam intransigente, dato che l’alcool è proibito ai musulmani. Nel frattempo, dal 2007, si era sviluppata nell’Ambar, la regione confinante, una nuova formazione jihadista che è diventata lo Stato islamico di Iraq e Siria, il Daesh. Nell’estate 2014 c’è stata la sua espansione con la presa di Mosul. È arrivato a 5 chilometri da Erbil e altrettanti dal villaggio cristiano dove noi abitavamo. Meno di un anno dopo, ad aprile 2015, in due giorni il Daesh è dilagato: i soldati iracheni sono fuggiti con abiti civili abbandonando le uniformi. In quei giorni al villaggio si vendevano visti più o meno falsi per la vicina Turchia. Per salvarsi occorreva partire senza nulla, entro 24 ore. Non ci restava altro da fare e abbiamo comprato i visti. Ma il giorno dopo i turchi hanno bloccato la frontiera e, come tanti altri, non abbiamo potuto passare. Quando non sapevamo più che fare, gli statunitensi e i curdi sono intervenuti e la situazione si è bloccata in un fragile equilibrio. Noi eravamo comunque decisi a partire e tra aprile e giugno 2015 abbiamo venduto di nuovo tutto quello che potevamo. La banca però non ci restituiva i soldi che avevamo depositato. Ma con il bancomat si potevano prelevare piccole somme ogni giorno. In due mesi siamo così riusciti a prelevare tutto e anche a vendere l’auto, ottenendo ovviamente un terzo meno di quanto valeva. Siamo partiti in aereo con un visto turistico (un mese, rinnovabile fino a tre) per Beirut. L’obiettivo, stavolta, era di poter arrivare all’ufficio Onu di Beirut per chiedere lo status di rifugiato. Dopo qualche mese l’abbiamo ottenuto, ma il Libano non ha un vero accordo con le Nazioni Unite per i rifugiati. Avremmo potuto ottenere un permesso temporaneo pagando 150 dollari l’anno ciascuno, ma dove trovarli?

Quindi restate sperando di andarvene prima o poi…

Siamo ufficialmente dei rifugiati che non pagano le tasse. E comunque quando otterremo l’accoglienza in qualche Paese, sappiamo che per lasciare il Libano dovremo pagare tutti gli arretrati. Quando mia sorella e suo marito sono partiti, abbiamo pagato i loro di arretrati. Ora che hanno un passaporto straniero potranno, se vogliono, rientrare in Libano, ma non possono farlo con il passaporto iracheno. Adesso, la nostra speranza è di ottenere la cittadinanza con la garanzia dei parenti che mia sorella ha contattato nel Paese dove si trova. La domanda per quella nazione l’avevamo fatta già 10 anni fa dalla Giordania, ma è sempre stata rifiutata. Adesso abbiamo fatto una domanda attraverso l’Onu e un’altra domanda direttamente all’ambasciata del Paese: avendo dei parenti che possono offrire delle garanzie è un po’ meno difficile. Una o l’altra, prima o poi passeranno! Certo, per i siriani adesso che c’è la guerra ed è più facile avere accoglienza. Molti non sanno che gli iracheni rifugiati in Libano (l’ha detto Mtv) sono almeno 180 mila. Adesso, l’altra mia sorella, mamma ed io stiamo lavorando e cerchiamo di mettere qualcosa da parte. Ci pagano molto meno dei libanesi e sono tutti lavori temporanei. Ma sono sicuro che ce la faremo. Dio è sempre stato con noi, se no non saremmo arrivati fin qui. Mi spiace di non aver potuto studiare, ma ce la metterò tutta quando saremo arrivati nel Paese che ci accoglierà.

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