Sport, politica e Carolina

Mancano tre giorni alla chiusura della 22esima edizione delle Olimpiadi invernali ed è già tempo di bilanci. Ancora una volta le medaglie intrecciano gli interessi di palazzo, le rivolte sociali, le vittorie sportive e umane
Carolina Kostner

Sochi e l’Olimpiade. L’Olimpiade a Sochi. Un rapporto tutto da chiarire, un amore forse mai sbocciato, un’eredità di infrastrutture e punti di domanda. Tanti, sul futuro. I villaggi a cinque cerchi lasciati ai posteri sono sempre più difficili da smontare stile Ikea e da rivalutare stile opera d’arte. E così un covo di possibilità ed occasioni che passano attraverso il riscatto della pratica sportiva se ne vanno in soffitta. Da Atene a Sochi passando per Torino lo spreco è evidente con danni notevoli al punto da non passare inosservati.

Di mezzo c’è sempre il territorio e la popolazione locale, come sottolineato nel post di Mario Agostinelli su il fattoquotidiano.it: “Olimpiadi ed ecomostri: gli elefanti bianchi di Sochi”. Un’altra sfida persa, forse, sotto l’ombra della pallottola spuntata di una propaganda che si è riflessa in quel quinto cerchio rimasto assopito di fronte allo scintillio dei quattro fratelli gemelli durante la cerimonia d’apertura. Un errore mondiale che la tv di Stato russa ha dichiarato di aver mascherato mandando in onda le immagini delle prove ufficiali. 

Da Sochi a Kiev
Ci sono 1.400 chilometri e un giorno di viaggio. Da una medaglia d’oro a una pallottola vagante in piazza Maidan. In mezzo c’è anche lo sport, vuoi per via dell’ex pugile campione dei pesi massimi Vitalij Klyčko alla guida del partito filoeuropeista Udar (Alleanza Ucraina per la Riforma), vuoi per quegli atleti della delegazione ucraina che hanno chiuso le loro valigie lasciando in camera tute da gara e attrezzi del mestiere. Un «ciao, arrivederci alla prossima» che può far riflettere se è ancora vero che il sogno a cinque cerchi sta nel cassetto di ogni sportivo. C’è chi però gareggia nonostante la bufera politica con la speranza di portare a casa un pizzico di gioia, vedi le atlete della staffetta del biathlon femminile, in gara alle 18:30. C’è chi invece parteggia come la sciatrice Bogdana Matsotska che via Facebook ha postato il suo disappunto per le azioni del presidente Yanukovych. Il Comitato Olimpico dell’Ucraina ha dichiarato che tutti gli atleti e i membri degli staff operativi torneranno in patria come previsto dal calendario. Niente rientri anticipati, nessun segno di lutto al braccio perché la carta olimpica non ammette pressioni politiche né simboli esterni, men che meno se con lo sport hanno poco da spartire. Due sciatrici di fondo non si sono presentate al via della gara sprint a squadre. Infortunio o ripicca? Insomma, lo sport declinato nella sua massima espressione risente ancora una volta dei tumulti sociali e della cronaca (nera) della politica. Vittime e sangue in barba alla “Dichiarazione del Millennio” firmata alle Nazioni Unite da oltre 150 Stati tra cui l’Ucraina. Tutti hanno sottoscritto l’invito al rispetto della tregua olimpica.

Oltre tutto dopo tutto 
Sulla linea sottile che segna il confine tra lo sport e la politica ci sono loro dunque: gli atleti, compresi “i nostri”. Gente tricolore in terra di Russia, quasi fosse una campagna di richiamo per gli antenati. “I nostri” della staffetta mista del biathlon vanno che è un piacere: Dorothea Wierer, Karin Oberhofer, Dominik Windisch e Lukas Hofer, sul podio con la medaglia di bronzo al collo e la Russia questa volta dietro. Quinta, sulla neve infuocata di Krasnaja Poljana, infilzata da una manica di giovani età media venticinque anni. Medaglia di sostanza, di peso e di cuore. «Dedicata a mio papà che non c’è più», ha detto lui, Lukas Hofer il figlio di Franz. Una grande Olimpiade e una dedica silenziosa anche per lei, Karin Oberhofer da Bressanone con il padre Paul costretto sulla sedia a rotelle dal ’78 che nasconde un passato da campione dell’atletica paralimpica prima e dello sci poi. Quando si dice lo sport è un vizio di famiglia.

Con i nostri c’è anche lei, Carolina Kostner e viene da dire finalmente. Dopo Torino 2006, dopo Vancouver 2010, “la nostra Carolina” ce l’ha fatta. Bronzo, come i suoi colleghi di qualche riga fa, dopo una battaglia a colpi di piroette e giravolte sulle note del Bolero di Maurice Revel dipinte sul ghiaccio in maniera magistrale. Buona la prima, bene così, per scavalcare i fantasmi del passato, la paura di sbagliare e di non essere all’altezza di un copione che gli altri avevano scritto per lei. Complimenti a Carolina, un inchino a ringraziare e un fiore per dire che in questi casi l’appetito vien mangiando.

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