Sotto i cieli del Tibet

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Dalla pianura bagnata dal Po alle altissime innevate catene montuose del Tibet c’è una bella differenza. Ma raggiungere a pedali, con altri cinque amici, altitudini sui 4-5000 metri – da Lhasa e diretti a Kathmandu, in territorio nepalese – non è da tutti. Tuttavia Giovanni Zilioli, ex insegnante di filosofia e letteratura, poeta e pubblicista originario di Fiorenzuola d’Arda, nel piacentino, non è nuovo ad imprese del genere: da solo o in compagnia ha già macinato chilometri in bicicletta, dalla Patagonia al Canada, agli Usa, alla Lapponia, alla Russia. Cosa lo spinge a conoscere popoli diversi usando questo mezzo? È la domanda che mi viene spontanea da porgli dopo aver letto il suo bellissimo libro Sotto i cieli del Tibet (Ediciclo Editore): incontro con il millenario popolo tibetano al contatto con una natura dalla possente e vertiginosa bellezza. Il tuo è un diario di viaggio realizzato con un veicolo che facilita la riflessione, la contemplazione. Con le caratteristiche, dunque, di un itinerario spirituale dal quale – come tu stesso ammetti – la tua fede cristiana è uscita depurata, più essenziale. Cosa aggiungeresti, a cuore aperto, sul Giovanni credente?… Se mi si chiedesse: perché sei cristiano? risponderei: perché credo che Gesù è risorto. E questa certezza nella resurrezione di Gesù – l’evento che differenzia il cristianesimo dalle altre religioni – è per me motivo di speranza, ma anche una sfida, una provocazione per la mia razionalità. Lo era anche per alcune grandi anime che ho conosciuto – penso ad un padre Turoldo -, uomini per i quali la fede costituiva un tormento, una conquista quotidiana. Persone come queste mi convincono, a differenza di altre per le quali la fede è un dato piuttosto scontato. Come tutti i viaggi estremi che richiedono sacrifici enormi, anche questo ha evidenziato in te e nei tuoi amici, insieme a limiti, risorse inaspettate: condizione ottimale per conoscervi più a fondo. Quale aspetto di te, ad esempio, ti sembra di aver approfondito? Che mi basta molto poco per essere in armonia con il resto del mondo. In Tibet e in Nepal mi sono imbattuto in una umanità semplice, che vive senza chiedersi troppi perché. E questa essenzialità, difficile purtroppo da recuperare qui da noi (per cui ci sto male!), ha lasciato un segno indelebile anche nei miei compagni. Nella premessa scrivi: Ora attendiamo di fare spazio a nuovi sogni, continuare a vivere e non smettere di credere che l’impossibile si possa realizzare… Sì, io quotidianamente, da quando mi sveglio, ho bisogno di forti stimoli di ricerca. Le cose banali e ripetitive che fanno tutti, come lavarsi la faccia, non riesco a farle solo perché ne ho presa l’abitudine: devo trovarci un senso, uno scopo, se no cado in depressione, mi arrabbio. Infatti mi si rimprovera di essere sempre inquieto, mai soddisfatto… Quanto alla dimensione del sogno, per me esso è sinonimo di metafora, di rappresentazione; non ha niente a che fare con i sogni freudiani. A me piace pensare a cose che non vedo, non tocco, non sento. Per me il sogno è il trampolino di lancio verso quello che non si vede. Nel tuo percorso verso Kathmandu ho ammirato quel tuo atteggiamento di rispetto, di attenzione verso chi è diverso da te, che ti rende capace di accogliere ciò che anche gli altri possono donarti. Tutti i popoli hanno una propria dignità e vanno accettati come sono, con le loro tradizioni, senza mai giudicarli: solo così è possibile capirli (non in senso intellettuale, ma vitale) nei loro valori o anche disvalori, giacché luce e tenebra coesistono dappertutto. Per me è irritante quando vedo andare qualcuno all’estero mantenendo le proprie abitudini riguardo al mangiare o al vestire… Cerca invece di entrare nel modo di essere di quel dato Paese – mi verrebbe da dirgli – e comincerai a capire perché lì sono fatti in un certo modo: una volta rientrato in te stesso e a casa tua, vedrai molto meglio limiti e ricchezze della tua società e di quella che hai lasciato. E ti parranno assurdi tanti pregiudizi da cui nascono certe intolleranze dei nostri giorni. A me sembra che i brani poetici inclusi nel tuo diario di viaggio corrispondano a momenti di contemplazione in cui tu rientri in te stesso per valutare e custodire quanto vai scoprendo… È vero. Sono pause nelle quali cerco di approfondire quanto già in parte spiegato, ma che lì viene come depurato, essenzializzato ed espresso in forma lirica. In esse io faccio i conti solo con me stesso e con l’esperienza che vado facendo. Sono momenti simili a come quando ci si apparta per pregare. Per me la poesia è molto vicina alla preghiera, i salmi e il Padre Nostro li considero altrettanti canti. Le avventure in bicicletta sono l’eccezione. Più spesso, invece, c’è da affrontare la vita quotidiana. Come riesci a pedalare in questi percorsi? Ah, per me è molto difficile affrontare la quotidianità. Non ho pazienza, sono insofferente verso varie incombenze e scadenze di ogni giorno… E questo perché da quando sono uscito dalla pancia di mia madre mi sento in viaggio verso un altro mondo, per arrivare al quale vorrei quasi bruciare le tappe: non perché non mi piaccia questa vita, anzi! però aspetto dell’altro. Con una nostalgia infinita per attingere quel mistero. Questa inquietudine esistenziale, questo non saper aspettare a differenza delle persone sagge o dei santi, costituisce – lo riconosco – uno dei difetti che più mi pesano. Ma è anche stimolo per quanto poi cerchi di esprimere… Esatto! È quello che in fin dei conti mi permette di essere quello che sono. Spesso, infatti, i limiti si rivelano anche come ricchezze, come punti di forza: dipende da come ci si rapporta con essi…. Tu hai definito misterioso e fragile il linguaggio delle parole. Eppure noi affidiamo ad esse ciò che abbiamo di più prezioso da esprimere. Cos’è per te scrivere, sia che si tratti di poesia o di prosa? Rispondo con una frase apparentemente banale, ma che per me almeno è vera: scrivere è il mio modo di essere, di vivere, di trasformare il mio tempo in realtà (per altri può essere il lavoro, la famiglia, il potere, il denaro, il successo…). La parola per me è un mezzo per cercare di calarmi nel mistero delle cose, per riportare a galla brandelli di verità da rendere comprensibili a me anzitutto, ma anche agli altri (perché l’arte è sempre comunicazione, altrimenti non è). In effetti le tue poesie sono sempre chiare, dirette, mai involute… Secondo te questa concretezza ha a che fare un po’ con le tue origini? Sicuramente. Alle mie origini contadine e povere ci tengo molto, ne sono molto orgoglioso. L’uomo per me dev’essere povero, perché nel momento in cui smette di essere tale, comincia ad alienarsi (questo è molto marxista). Sì, la concretezza… per me tutto è concreto, anche l’invisibile e la realtà spirituale. Il tuo diario ad alta quota si conclude con una parola: Dio. È intenzionale? Sì, anzi provocatorio, perché oggi nel nostro mondo chi parla di Dio è in un certo modo un provocatore, un guastafeste. SALUTANDO UNO YAK Bruca mansueto/ sui pascoli radi/ appena al di sotto del cielo./ Pesante, ingobbito,/ guarda la terra/ con la saggia indifferenza/ di chi tutto ha veduto/ di chi ha molto sofferto./ Lento, guardingo nei passi/ sembra calpesti le rocce/ con estrema attenzione,/ quasi temesse ferirle./ Paziente, porta fin sopra le nevi/ il suo pelo di pietra/ le sue corna di marmo./ Osserva con occhio languido/ e attento, quasi volesse/ non farsi scoprire./ Lascia che il tempo disgreghi/ la superbia dei giorni,/ lui composto e sapiente,/ il pensieroso signore/ di questi altopiani/ adatti solo ai più forti,/ a coloro che sanno/ l’impermanente e il finale. (Da Sotto i cieli del Tibet, Ediciclo Editore).

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