Siria. Guerra contro i civili

Viviamo ogni giorno con angoscia le immagini e le parole che arrivano dal Paese del Vicino Oriente, dalle sue bellissime città e territori. Bambini, donne, anziani violati nel loro corpo, nella loro identità e nella loro dignità sono la denuncia quotidiana di una guerra, che prima di essere civile, è contro i civili e i civili più fragili
Uno dei campi profughi siriani in Giordania

Ban Ki Mon a luglio ha parlato di oltre centomila morti per il conflitto che scuote la Siria. Un numero indicibile per ferocia e violenza. Il governo Assad, dopo una fase di difficoltà, ha ripreso con l’appoggio degli hezbollah il controllo della situazione.

L’opposizione militarizzata, frantumata e divisa, con componenti terroriste significative tra salafiti e alkaedisti, cerca di riprendere l’iniziativa, con l’appoggio evidente di governi dell’Occidente.

In mezzo a questo scontro sta il popolo siriano, in parte fuggito in Turchia, Libano, Irak, Giordania. Si calcola che milioni di siriani siano fuggiti all’estero. Ma una parte non piccola è rimasta all’interno del Paese ed è ostaggio degli eserciti che combattono una guerra senza esclusione di colpi, ostaggio di una politica incapace di trovare soluzioni e punti di incontro per fermare un massacro dalle conseguenze incalcolabili.

La storia insegna?
Sta qui la questione delle armi chimiche, una formula terribile nel Mediterraneo, perché rinvia a ciò che accadde dieci anni fa, con la Seconda guerra del Golfo, una guerra costruita e legittimata dal fatto che l’Irak di Saddam Hussein avesse armi chimiche, notizia poi rivelatasi falsa a guerra conclamata. Oggi, in un’area vicinissima, si ripete il copione per giustificare una guerra di nuovo dalle conseguenze incalcolabili e imprevedibili.

Se guardiamo gli avvenimenti con un po' di distacco, dopo venticinque anni dalla Prima guerra del Golfo, verrebbe da dire che a metà degli anni Ottanta, con la guerra tra Iran e Irak, è iniziata la “Guerra dei trent’anni” (ad oggi ) tra sunniti e sciiti, che attraversa tutta l’area del Mediterraneo, del Medio Oriente e del Golfo, una guerra che oggi vive una fase delicatissima e particolarmente violenta. Una guerra mondiale con azioni locali.

Chi in questi anni ha spinto sul fuoco della guerra si è assunto una gravissima responsabilità, perché ha riacceso qualcosa che non si è mai spento. Si è fatta la guerra in Libia e la si è esportata nel Sahel. Si è ucciso il dittatore Gheddafi e si è pensato che questo modello si potesse sportate in Siria. Si è distrutto il movimento non violento in Siria e si è alimentata un'opposizione sgangherata e feroce.

Si sono cercate soluzioni militari per singoli Paesi mentre era necessaria una piattaforma politica regionale, con la garanzia di Europa, Stati Uniti, Russia e Cina, che fosse capace di trovare una soluzione equilibrata di convivenza in tutta l’area come risposta a una guerra permanente, i cui esiti oggi appaiono devastanti anche nel medio periodo.

Le Nazioni Unite?
Le Nazioni Unite sono chiamate a un passaggio decisivo per il loro futuro. Giustamente la Merkel e il ministro Bonino hanno insistito sulla necessità di un'iniziativa Onu, un'iniziativa politica, e non militare delle Nazioni Unite.

Conosciamo bene il meccanismo del diritto di veto dei Paesi del Consiglio di sicurezza, ma anche in questo contesto appare come uno strumento per evitare la guerra. Anche Obama sembra per ora cogliere il valore di questa posizione, anche se le pressioni per un intervento militare sono fortissime.

Per altro si vuole fare la guerra (gli studiosi educati parlano di uso della forza) per salvare i bambini, ma è proprio la guerra cheli uccide, come è noto a tutte le latitudini. Questo è il tragico paradosso della guerra che i generali conoscono bene e i politici un po’ meno, presi dai loro interessi spesso solamente elettorali.

Qualcuno ha tirato fuori il modello Kossovo, ma la distanza tra Kossovo e Siria non è misurabile né in termini politici, né economici, né militari.

La via della guerra è una via illusoria, che complica e non risolve i problemi sul tappeto. Basti ricordare l’Afghanistan (dal 2001), l’Irak (dal 2003), la guerra israelo-libanese (2006), le due guerre di Gaza (2006 e 2012), la guerra di Libia (2012) l’attuale guerra in Siria (dal 2011). Sono tutti esempi solari del fallimento della guerra, della sua cultura e della sua prassi. In questo la Libia è davvero un caso di scuola.

Una politica per la pace
È necessario arrivare a una piattaforma politica, che affronti i veri nodi della regione, nodi culturali, politici e militari. Non ci possiamo arrendere alla guerra sciito-sunnita dei trent’anni che diventano cento.

L’Europa deve avere una sola politica e non interessi frammentati, una politica che porti in tutta l’area la cultura della cooperazione e della riconciliazione. Cooperare insieme conviene, riconciliare conviene, come la stessa storia dell’Europa ha testimoniato in questi ultimi sessant'anni. La politica dell’Europa deve unire e non dividere, deve creare cooperazione  tra Paesi, comunità e territori, deve seminare ed esprimere unità tra le grandi famiglie religiose, senza scomuniche e senza conflitti.

La Russia e la Cina devono essere capaci di un multilateralismo che le renda protagoniste nei punti decisivi del mondo, giovando non solamente di rimessa, ma attraverso un'azione dinamica ed efficace, capace di equilibrare interessi diversi. Testimonianza di tutto questo è stata la guerra israelo-libanese del 2006, dove l’Italia di Prodi fu capace di unire Europa, Cina e Russia e salvare la pace in Medio Oriente, un attimo prima della catastrofe.

Gli Stati Uniti, sempre più autonomi dal petrolio arabo, devono essere capaci di svolgere un'azione positiva per chiudere la guerra sciito-sunnita. C’è già un'agenda che parte dalla questione israelo-palestinese, per arrivare al dialogo costruttivo con l’Iran, a una stabilizzazione effettiva in Libano e in Siria e al consolidamento di regimi democratici nei Paesi della riva sud del Mediterraneo.

È venuto il tempo di fermare le armi e le bombe, chimiche e non solo, prima che sia troppo tardi, e costruire forme di interposizione, come la vicenda israelo-libanese testimonia con le truppe Unifil, ma anche con tanti progetti di cooperazione e di riconciliazione.

Forse questa può essere la strada per fermare il calvario del popolo siriano, per liberarlo dalla terribile prigionia della guerra e delle armi, con il calcolo impossibile degli uccisi, con lo scialo di morte della esibizione dei corpi degli uccisi.

La cooperazione come via
Non possiamo essere semplicemente spettatori di tutto questo. Non possiamo commuoverci di fronte a un bambino ucciso e poi rimanere inerti, presi dai gorghi di casa nostra. L’Italia, nell’Unione europea, può avere un ruolo decisivo solo se lo vuole, è meno "ingombrante" di altri Paesi europei, ha meno interessi da difendere, e questo la abilita ad essere protagonista di una politica di visione e di riconciliazione.

Cooperare oggi vuol dire agire a favore dei profughi siriani, dei bambini profughi, ma anche dei bambini che continuano ad abitare oggi, ora, nel Paese in guerra. Dare loro salute e studio, scuola e futuro. La politica deve trovare azioni e parole per parlare ai bimbi di Damasco e di Aleppo, per dire loro che la pace è possibile, che ci sono altre vie rispetto alla guerra, per affermare una politica di democrazia e di diritti.

Chi si illude sull'efficacia delle armi non conosce la forza della cooperazione, che unisce, che mette insieme popoli e storie e non abbandona alla violenza i bambini, che sono i nostri fratelli più piccoli, né li riduce a strumento di macabra propaganda.

C’è una forza del bene che va espressa anche sul piano politico e delle istituzioni. Quando vincono le armi muore la politica. Quando vince la grande politica, le armi tacciono.

Molti immigrati che vengono dall’rea del Medio Oriente sono arrivati sulle nostre coste. Evitiamo di speculare e cerchiamo di cooperare. In un anno il Libano ha accolto un milione di profughi siriani e così altri Paesi dell’area (la Giordania, ma anche la Turchia). Non hanno fatto la conta dei problemi, ma hanno messo insieme le energie della solidarietà.

I bambini siriani sono stati accolti nelle scuole libanesi, anticipazione di un tempo e di una politica nuova che verranno. Mi pare un grande fatto politico per un mare, come il Mediterraneo, che è diventato un cimitero per la durezza dei nostri cuori, per un'Europa chiusa come una fortezza.

Partecipiamo con loro a costruire una mare di cooperazione. Invece di bombe, progetti; al posto di armi chimiche, nuove relazioni di fraternità. Questa è una scelta che l’Italia, insieme all’Europa, può fare. La guerra dei cento anni sciito-sunnita può essere fermata se non ci limiteremo a scelte episodiche, ma saremo vigilanti e perseveranti in una politica di pace, che cambia la politica e i cuori delle persone e delle istituzioni.

E i cristiani?
In questo contesto c’è il dramma dei cristiani che sembrano abbandonare la riva sud del Mediterraneo e il Medio Oriente. Tutta quest’area è terra santa, compreso l’Egitto dove anche Gesù ha vissuto da profugo.

Non si tratta di essere filogovernativi  piuttosto che a favore dell’opposizione. Molti cristiani hanno scelto la via della verità,  cioè una presenza nel popolo in nome del Vangelo. Questo accade in Libano come in Siria e in altri Paesi.

Il senso di questa presenza  abita nella consapevolezza che senza i cristiani l’intera area perderebbe un segno piccolo ma fortissimo di fraternità e di riconciliazione, di cui tutti, sunniti e sciiti, politici e generali, dittatori e oppositori, hanno bisogno.

In questo c’è una responsabilità della Chiesa universale, che non può abbandonare le Chiese sorelle del Medio Oriente che vivono il tempo della prova.

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