Secessione antistorica?

Ripercorrendo le vicende del nostro Paese, le ragioni dell'affermazione di Napolitano
secessione

«Liberi non sarem se non siam uni», scriveva Alessandro Manzoni – che non era l’ultimo arrivato – ancor prima del fatidico 1848: l’anno delle rivoluzioni in tutta Europa, e della nostra prima guerra d’indipendenza. I versi del poeta lombardo (doc, per la gioia degli amanti delle radici autentiche) esprimevano l’ansia dell’unità italiana che come un vento, a partire dalla rivoluzione francese, stava percorrendo le menti più sveglie degli italiani, scrittori, poeti, musicisti (basti pensare a Verdi) compresi. Ci aveva pensato addirittura un non italiano, il generale napoleonico Murat, poi re per poco tempo di Napoli, al sogno di un’Italia unita.

 

La lotta per il sogno è stata dura: l’Italia si è “fatta” dopo la presa di Roma, nel 1870. Poi occorreva “fare gli italiani”, cioè abituarsi alla convivenza pacifica di popoli che, pur definendosi genericamente italiani, portavano dietro a loro storie differenti. Perciò iniziare a cambiare mentalità – dal particolarismo regionale alla coscienza di essere nazione – è stato faticoso. Il “regno d’Italia” ci ha lavorato parecchio, con risultati alterni: non sempre ha compreso – vedi la questione meridionale – le diverse culture degli ex stati “italiani”. Sembrerà strano, ma è stata la prima guerra mondiale a portare a vivere gli uni accanto agli altri i giovani delle diverse “Italie”, rendendoli così coscienti di far parte di un solo Stato. Così si sono smussati gli angoli del particolarismo regionale, l’Italia – anche sotto il regime fascista – si è fatta più compatta, più “una” e poi, dal secondo dopoguerra, la cosa è stata sancita dalla nuova Costituzione repubblicana e accettata senza riserve da tutta la penisola. Si sorrideva certo delle caratteristiche regionali (un esempio al cinema? Gina Lollobrigida, che si innamora di un tenentino veneto in Pane amore e fantasia degli anni ’50), ma l’unità non era in dubbio. Basti ricordare le celebrazioni nazionali, molto sentite, del 1960. L’idea della secessione, oggi riproposta da alcuni, pare a dire il vero una nota stonata. E antistorica. Ma lo è davvero?

 

Che il carattere “italiano”, come già notavano nel ‘500 Machiavelli e Guicciardini – storici acuti –, puntasse ad un individualismo eccessivo, lo si era visto nella tendenza lungo il tempo alla “secessione” da parte di un gruppo politico verso il governo legittimo. Chiunque conosca un po’ la storia dello Stato pontificio saprà che questo per secoli (almeno fino al ‘500) era formato da “regioni secessioniste”, che avevano una dipendenza del tutto formale verso il papa di Roma. Ognuna all’interno tendeva ad una decisa autonomia dal potere centrale e lo difendeva con i denti, con danno evidente dell’intera compagne statale. Ma senza andare troppo in là, occorre pensare che il fenomeno del “brigantaggio” nel Meridione dopo il 1860 non è stato solo un fatto di “colore locale”: la repressione sanguinosa attuata dai piemontesi – per difendere, occorre pur dirlo, l’appena nata nazione italiana – era l’espressione di un governo preoccupato di come diverse forze (locali e straniere) cercassero di staccare dall’interno una parte dal tutto, ovvero il Sud dal governo centrale (fenomeno che si inizia finalmente a studiare). Del resto, dopo la seconda guerra mondiale, i partiti separatisti siciliani o sardi, per non dire quello del Sudtirol, hanno avuto una vita notevole. I separatisti siciliani, forse all’epoca incoraggiati larvatamente dagli Usa (sempre molto presenti dietro le quinte della politica nostrana) e da certa mafia ivi trapiantata, hanno avuto uno sviluppo che non è mai cessato. Come non sono cessate le rivendicazioni di parecchia gente del Sudtirol, ovvero dell’Alto Adige che, per quanto abbiano notevoli vantaggi dallo Stato italiano, continuano ad avere nostalgia dell’Austria.

 

Pochi esempi, ma fanno intuire come il tarlo dell’andare da soli sia sempre in agguato. L’unità nazionale, è vero, è oggi cosa difficile. Ma il minarla con minacce di fuga suona come un fatto illogico, prima che antistorico. Illogico perché è contro la natura umana, che ha bisogno della coesione per una società forte. E antistorico perché significa tornare indietro di oltre un secolo, disprezzando chi ha lottato ed è morto per un valore che non ha prezzo, sentendosi in qualche modo diversi e superiori agli altri. Che è proprio il disvalore tipico del nostro mondo occidentale così in crisi. La secessione fa sempre male: pensiamo a quella famosa nel 1921, chiamata pomposamente “l’Aventino”, da parte di deputati liberali di fronte a Mussolini, che ha portato di fatto alla sua ascesa.

 

Manzoni aveva ragione. I suoi versi aprivano un processo storico: oggi qualcuno vorrebbe tornare indietro, di fatto, agli egoismi regionali. Meglio lasciar perdere la secessione in nome di una civiltà “particolare”. Ma quale civiltà se l’Italia è frutto di una mescolanza secolare di popoli, che finalmente si sono unificati con una presa di coscienza di caratteristiche comuni che gli altri, gli “stranieri” sanno ben evidenziare? Napolitano ha ragione. Non si può tornare al 1815, quando il Congresso di Vienna ha deciso la spartizione dell’Italia.

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